UN ANNO DEL GOVERNO MELONI

Qualcosa bene, qualcosa no,
ma la legislatura è solo all’inizio

Il presidente del Consiglio italiano Giorgia Meloni è intervenuta per la prima volta all'Assemblea delle Nazioni Unite il 22 settembre 2023

 

Il Governo guidato da Giorgia Meloni ha compiuto un anno: con quali risultati? Quanto in linea, e quanto no, con i programmi elettorali che avevano portato alla vittoria trionfale del 25 settembre 2022? E tali scostamenti, a volte anche cospicui, come vanno considerati? Come vanno giudicati?

Giorgia Meloni in una simpatica gag durante l'Assemblea nazionale di Fratelli d'Italia incentrata sulle modalità di salutare delegati e giornalistiNelle ultime settimane il tema è ricorrente. Lasciamo pure da parte le abituali distorsioni in stile Pd e affini, per cui l’Esecutivo ha torto sempre e comunque, come se fosse vietato discutere con la Ue del Pnrr o dissentire da Francia e Germania sui ricollocamenti, e come se non esistessero i vincoli di bilancio che condizioneranno, fatalmente, la prossima Finanziaria.

Il nodo dell’emergenza migranti

La questione davvero essenziale è più che mai di natura politica. Ed è la valutazione dei motivi che hanno portato a certe divergenze, rilevanti, con ciò che si era annunciato di voler fare una volta approdati a Palazzo Chigi.

Vedi, innanzitutto, il mancato obiettivo di ridurre drasticamente gli arrivi via mare dei «migranti» africani, e che non possono non sollevare ulteriori dubbi su ciò che accadrà nel prosieguo della legislatura.

Detto brutalmente: malafede o pragmatismo? Un inganno deliberato ai danni degli elettori oppure, al contrario, il pedaggio incolpevole che si è dovuto pagare sia alle situazioni concrete, sia ai vincoli di vario tipo con cui ci si è dovuti misurare?

Il politologo Alessandro CampiNei giorni scorsi Alessandro Campi ha fornito la sua interpretazione con un editoriale su Il Messaggero nel quale ci sono molte riflessioni condivisibili e imperniate sulla inderogabile necessità di fare i conti con la realtà.

Fin dal titolo Gli imprevisti della politica che richiedono cambi di rotta, il politologo mette l’accento sulle contingenze, anziché sui tantissimi condizionamenti che possiamo definire strutturali e che, in quanto tali, non sono affatto transitori e imprevedibili ma costanti e «strategici».

Perché derivano dagli assetti di potere che si sono consolidati nei decenni scorsi, nel mondo cosiddetto atlantista, allo scopo di instaurare determinati modelli socioeconomici.

Facendo leva, per limitarci al solo ambito Ue, su organismi come la Commissione Europea capitanata da Ursula von der Leyen e la Bce presieduta da Christine Lagarde.

Ingabbiati. Almeno per ora

È in questo, a nostro giudizio, che risiede l’errore decisivo. Il nodo da affrontare, assai più stretto e ingarbugliato delle circostanze specifiche che pure esistono, è un altro.

È il fatto che i margini di manovra dei governi nazionali siano ormai così limitati. Anzi: sempre più limitati. Per quanto l’assoggettamento sia oneroso, le ripercussioni di un affrancamento unilaterale e immediato sarebbero semplicemente insostenibili.

Il primo chiarimento da offrire ai propri concittadini, e ai potenziali elettori che ricerchino una visione alternativa a quella dominante, è che questo stato di cose rende assolutamente impossibile cambiare dall’oggi al domani. E nemmeno, ahinoi, in tempi più lunghi ma contenuti nel volgere di pochi anni.

Non solo: non appena divenisse chiaro che certi disaccordi non sono a scartamento ridotto, nel segno di qualche vantaggio circoscritto come può esserlo una maggiore collaborazione nella gestione dei flussi migratori o una deroga temporanea sul debito pubblico, le contromisure sarebbero durissime. Sistematiche. A loro volta strategiche.

Occhi aperti. Apertissimi

Torniamo allora alla domanda centrale. Dove finisce il pragmatismo? Dove comincia, e fino a dove si spinge, l’eventuale malafede?

Perché i programmi elettorali, e ancora prima le affermazioni di principio, fanno così fatica a trovare riscontro nelle scelte operative?

La risposta, concentrandoci soprattutto su Fratelli d’Italia, è nell’impari rapporto fra le proprie intenzioni e ciò che le ostacola.

Da un lato ci sono i cambiamenti cui si ambisce: il tipo di società che si vorrebbe costruire e alla quale si cercherà di arrivare per gradi, senza rinunciare alla tensione ideale che la ispira ma coesistendo, giocoforza, con dei percorsi accidentati e delle deviazioni forzate.

L’ambizione al cambiamento

Dall’altro lato, invece, ci sono gli innumerevoli intralci che si presentano via via e le infinite pressioni che, sempre incombenti, si manifestano in maniera più o meno vincolante.

Già. Le concezioni altrui, che in maniera molto sintetica si possono definire «liberal-progressiste», hanno generato una miriade di fattori di segno opposto, che si risolvono in altrettanti impedimenti alla riconquista di valori differenti.

Fattori normativi, incardinati sui trattati di Maastricht, di Dublino, di Lisbona. Fattori istituzionali ed economici. Fattori culturali e mediatici.

Una rete quanto mai ramificata che molte cose le vieta espressamente. E dove non le vieta le contrasta in ogni modo, nell’intento di togliere agli avversari di turno qualsiasi credibilità e legittimazione.

C’è qualcosa di facile, nel fronteggiare un sistema tanto radicato e poco meno che onnipresente?

Naturalmente no. E un solo anno di governo – o anche meno, visto che l’insediamento dell’Esecutivo avvenne il 22 ottobre 2022 – è senza dubbio troppo poco per liquidare come meramente propagandistici i programmi elettorali.

La verifica resta aperta. Così come devono restare aperti gli occhi di chi ha cuore un’Italia migliore. Agli antipodi di quella vagheggiata e perseguita dai vari Prodi, Monti, Renzi, Enrico Letta. E in ultimo, e se possibile ancora peggio, Elly Schlein.

Gerardo Valentini

 

 

 

I LIMITI DELLA UE

Dublino e Maastricht, Trattati del passato del 17 settembre 2023

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