IL RITORNO DI DRAGHI NELLA UE

Dublino e Maastricht,
Trattati del passato

L'incarico a Mario Draghi e il futuro dell'Unione Europea

 

C’è voluto l’intervento di Mario Draghi, per mettere all’ordine del giorno la questione dell’arretratezza dei trattati Unione Europea. E non può essere certo una coincidenza che di lì a poco sia arrivato anche l’annuncio dell’incarico che gli è stato dato da Ursula von der Leyen: un rapporto sulla futura competitività della Ue.

Mario Draghi ritratto su L'EconomistL’intervento di cui parliamo è apparso lo scorso 6 settembre sul settimanale inglese The Economist. L’asse portante, come riportato nel titolo, è il «percorso verso l’unione fiscale nell’Eurozona».

Nel testo, che vale la pena di leggere nella sua versione integrale, l’ex presidente della Bce (nonché ex presidente del Consiglio, ma mettere le due cariche in quest’ordine serve a ricordare che la sua dimensione principale è sempre stata, e rimane, quella bancaria) colloca verso la fine quella che in realtà è la premessa dell’intero ragionamento.

Le nuove sfide sovranazionali

Una premessa che, al di là delle altre valutazioni che ne scaturiscono, è del tutto condivisibile.

Scrive Draghi: «Le strategie che in passato garantivano la prosperità e la sicurezza dell’Europa – la dipendenza dall’America per la sicurezza, dalla Cina per le esportazioni e dalla Russia per l’energia – sono diventate insufficienti, incerte o inaccettabili».

A fronte di questi cambiamenti di scenario, «L’Europa deve ora affrontare una serie di sfide sovranazionali che richiederanno ingenti investimenti in un breve lasso di tempo, compresa la difesa, la transizione verde e la digitalizzazione.

Allo stato attuale, tuttavia, l’Europa non ha né una strategia federale per finanziarli, né le politiche nazionali possono assumerne il ruolo, poiché le norme europee in materia fiscale e sugli aiuti di Stato limitano la capacità dei paesi di agire in modo indipendente».

Una rigidità da sboccare

Quale sia la soluzione, secondo Draghi, era già anticipato dal titolo del suo articolo. Ma ribadiamolo ancora per ulteriore chiarezza: unificare le politiche fiscali, uscendo dai vincoli stabiliti a suo tempo e divenuti troppo rigidi per ostinarsi ad applicarli in modo meccanico, e passare invece a una gestione complessiva.

Anziché inchiodare le singole nazioni al rispetto di certi parametri prefissati, come quelli del Trattato di Maastricht del 1992, si dovrebbe decidere di volta in volta come aiutarli ad affrontare le difficoltà che emergono via via.

Il che significa, nelle parole di Draghi, «mettere in comune una maggiore sovranità e richiederebbero quindi nuove forme di rappresentanza e un processo decisionale centralizzato».

Nuovi poteri ma in una chiave diversa

Ovvero, dare più poteri alla Ue nel suo complesso. In una chiave che sia però diversa, o quantomeno potenzialmente diversa, da quella su cui si basano gli accordi che si sono stipulati in passato.

E che, da allora in poi, si sono tenuti in piedi con una miriade di accomodamenti «di fatto» e di dilazioni di ogni genere, che non sono mai arrivate a riconsiderare davvero le strategie originarie, né tantomeno i rapporti di forza tra gli Stati membri.

Detto in una parola, ci si è barcamenati. Ma «barcamenarsi» non è affatto lo stesso che darsi una rotta precisa. Precisa e nitida.

In grado di dare a tutti la possibilità di sapere con esattezza dove si sta andando e a quali scopi. Con quali vantaggi, e con quali svantaggi, per le varie «navi» della flotta.

Norme decrepite da cancellare

L’analisi di Draghi si concentra sui problemi di bilancio e, quindi, sulle politiche di spesa. Lo stesso approccio si può però estendere, eccome, ad altri ambiti. A cominciare da quello dell’immigrazione.

Insistere ad appellarsi al Regolamento di Dublino, e in particolare all’art. 13 che attribuisce «la competenza» a esaminare le richieste di asilo al primo Stato europeo in cui si sia verificato l’ingresso illegale dei soggetti interessati, è palesemente iniquo.

La norma, che è sopravvissuta alle revisioni successive, risale al 1990. Quando il numero dei richiedenti era intorno a 400 mila.

La crisi dei rifugiati scaricata sull’Italia

Da allora, e più che mai dalla cosiddetta «crisi dei rifugiati» che si è scatenata a metà del decennio scorso, le cifre sono cresciute in misura talmente massiccia e assidua da renderle esorbitanti.

Con un aggravio che si spinge ai limiti dell’insostenibile e che si scarica soprattutto su quelle nazioni che, come l’Italia, sono geograficamente più esposte a diventare l’approdo dei migranti arrivati in Europa nella speranza di ottenere il diritto d’asilo.

L’anacronismo decisivo, peraltro, risiede proprio qui. Quel diritto venne sancito nel quadro della Convenzione di Ginevra del 1951, ma da allora a oggi i cambiamenti sopravvenuti sono immani.

Ciò che all’epoca costituiva più che altro un’affermazione di principio a buon mercato, visto che l’enorme espansione dei fenomeni migratori non era nemmeno lontanamente iniziata, si è ormai trasformata in un impegno proibitivo e senza fine.

Gli oneri di gestione sempre più onerosi

Tanto più che nel frattempo la Ue, come si legge sul sito del Parlamento Europeo, «ha integrato le condizioni per l’ottenimento della protezione internazionale nel proprio corpus giuridico e ha ampliato il concetto creando una categoria di beneficiari di protezione internazionale aggiuntiva rispetto ai rifugiati, ossia i beneficiari di protezione sussidiaria».

Insomma: maglie sempre più larghe e oneri di gestione sempre più cospicui.

I nobili principi dell’accoglienza umanitaria, pressoché indiscriminata, che cozzano brutalmente con gli obblighi fissati più di trenta anni fa, per quanto riguarda sia il succitato art. 13 del Regolamento di Dublino, sia i parametri di Maastricht sul debito pubblico.

Una vera comunità di nazioni, e di popoli, affronterebbe il problema partendo dalle situazioni reali. L’Unione Europea, a tutt’oggi, preferisce far finta che si possano perpetuare all’infinito le regole del passato.

Gerardo Valentini

Lascia un commento