La sentenza della Corte costituzionale n. 161 del 2023 ha giudicato in tema di revoca del consenso del padre all’impianto dell’embrione generato con la donna con cui prima si è separato e poi ha divorziato.
La donna, dopo un’iniziale titubanza, ha chiesto di continuare la fecondazione trovando l’opposizione dell’uomo che ha impugnato la norma che non consente la revoca del consenso dopo la generazione dell’embrione, rimasto crioconservato sino alla richiesta della madre.
L’uomo ha impugnato la richiesta chiedendo fosse tutelata la sua volontà, in maniera uniforme rispetto a quella della madre (violazione dell’art. 3 della Costituzione), chiedendo quindi di non essere sottoposto ad un «trattamento sanitario obbligatorio», con obbligo a diventare «padre», e quindi violazione della propria vita familiare (art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo), che comprende anche il diritto a non essere padre.
I rilievi della Corte Costituzionale
La Corte costituzionale ha dapprima evidenziato che l’uomo ha prestato il proprio consenso informato, in cui erano specificate le possibilità e le conseguenze di questo.
Nello specifico, sia la possibilità che l’embrione venisse crioconservato, sia l’impossibilità di una sua revoca, anche qualora venisse nel frattempo meno l’affectio coniugalis, nonché le «relative conseguenze giuridiche per la donna, per l’uomo e per il nascituro» (art. 5 della Legge sulla procreazione medicalmente assistita o Pma).
La norma chiaramente stabilisce quindi non illegittimamente che il consenso può essere revocato solo fino al «momento della fecondazione dell’ovulo».
Le conseguenze giuridiche in ordine al rapporto genitoriale, che conseguono alla fecondazione, sono diretta conseguenza dell’assunzione di responsabilità con la sottoscrizione del consenso informato.
La revoca del consenso della donna, tuttavia, non può essere bilanciata omogeneamente con l’analoga volontà paterna, e ciò per le particolari condizioni della gestante e l’invasività della procedura medica su di essa, tale da configurare un vero e proprio trattamento sanitario obbligatorio su di essa.
A tal fine la Corte cita l’analoga previsione contenuta nella Legge 194 in cui la donna è «unica responsabile della decisione di interrompere la gravidanza», con la differenza che le norme sulla fecondazione mirano a favorire la vita.
La tutela dell’embrione
A tal proposito, la Corte autonomamente pone in bilanciamento anche un altro diritto, quello dell’embrione, cercando di definirlo, alla luce ella giurisprudenza domestica e internazionale.
Fondamentale il recente passaggio della sentenza (sempre della Corte costituzionale), n. 84/2016, in cui si specifica che l’embrione ha in sé il principio della vita, vita da intendersi come vita umana, tale da sviluppare un essere umano, per cui in ogni caso non potrà mai essere considerato mero materiale biologico (sentenze n. 84 del 2016 e n. 229 del 2015.
In senso analogo si era espressa la Corte Edu (grande camera, sentenza 27 agosto 2015, Parrillo contro Italia, dove si è affermato: «human embryos cannot be reduced to ‘possessions’ within the meaning of that provision»). La sua tutela, quindi, è riconducibile all’art. 2 (diritti inviolabili dell’uomo).
Peraltro, nella premessa della stessa legge sulla Pma, è specificato che si tutelano i «diritti» di tutti i «soggetti» coinvolti, compreso il «concepito».
Aggiunge la Corte, però, a questa disamina, un ulteriore richiamo, all’ormai risalente sentenza di Corte costituzionale n. 27 del 1975: «non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute [psicofisica] proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare».
Anche questa pronuncia della Corte costituzionale faceva premettere, a tale proposizione, una tutela ex art. 2 del concepito, tuttavia, di fronte agli sviluppi e agli interrogativi che il progresso giuridico e tecnico suscitano, sembra debba proporsi un ragionamento più articolato.
Gli interrogativi bioetici
Al di là della considerazione del richiamo all’art. 2 della Costituzione che parla di diritti inviolabili, non quindi attenuabili, il concetto di persona, dalle premesse di cui sopra, sembra scollegarsi a quello di essere umano vivente (indubbiamente soggetto), e quindi essere posto e riconosciuto da un’autorità, evenienza che contraddice tutto il percorso personalistico del diritto occidentale (che si basa sulla dignità di ogni uomo a prescindere dalle condizioni).
La Corte costituzionale ha permesso, con le sue pronunce susseguitesi nel tempo sulla Legge 40 del 2004, la crioconservazione degli embrioni in misura sempre più ampia.
Il destino di questi «esseri umani viventi», dalle stesse parole della Corte, non è ma stato definito: sono sospesi, come in un limbo, in celle frigorifere.
La donna, che ha scelto di terminare la fecondazione, ha, anche inconsapevolmente, accettato la cura di quell’essere umano, che porta, in parte, i suoi caratteri. Il suo merito è stato quello di portare all’esistenza sociale, colui (la stessa Corte richiama il divieto di oggettivazione dell’embrione) che è il più piccolo e debole degli «esseri umani viventi».
Armando Mantuano *avvocato