I FUNERALI DI GIULIA CECCHETTIN

Le nobili parole
di papà Gino

Il funerale di Giulia Cecchettin celebrato il 5 dicembre a Padova nella Basilica di Santa Giustina

 

Un migliaio di persone nella Basilica di Santa Giustina e ottomila nella piazza antistante hanno partecipato ieri a Padova al funerale di Giulia Cecchettin, trasmesso in diretta dalla Rai come accade per le esequie di Stato. Al termine della Messa il padre della giovane uccisa Gino Cecchettin è intervento con parole sofferte, piene di dignità e aperte alla speranza.

Il discorso di Gino Cecchettin al funerale di GiuliaDopo l’omicidio di Giulia Cecchettin, la cronaca ha offerto, se possibile, una pagina ancora più drammatica.

Una donna, Vincenza Angrisano, ad Andria, è stata accoltellata dal marito, uscendo dal bagno di casa mentre i figli erano presenti. Il più grande, consapevole, a 11 anni, ha chiamato la zia «vieni, papà ha ucciso la mamma». Una frase che farebbe gelare il sangue a chiunque.

Intanto ad Andria un altra donna uccisa 

Lo hanno trovato in casa gli operatori del 118, che l’omicida aveva chiamato, impassibile di fronte al gesto, emotivamente distaccato rispetto alla reazione dei figli presenti e alla sorte della loro madre.

Pianificava il gesto per vendicarsi dell’indipendenza che la donna voleva raggiungere, le aveva già segnato il viso pochi giorni prima, la donna aveva paura a rientrare a casa, ma l’aveva fatto un’ultima volta, per i figli, prima di andarsene in affitto da un’altra parte.

Una storia più penosa anche rispetto all’angoscia provocata dalla scomparsa di Giulia, che ha preceduto il drammatico suo ritrovamento, storia «minore», paradossalmente coperta dal clamore giornalistico di chi l’ha preceduta.

Il gioco mediatico purtroppo crea grandi zone d’ombra proprio a causa di una sovraesposizione specifica, e selezionata; lo si vede con il conflitto a Gaza, in cui forse è anche un meccanismo studiato, come anche in tutti i contesti dove non si vogliono ricercare le cause, e si assolutizza un evento.

Ovviamente, la famiglia Cecchettin non ha alcuna colpa e, anzi, il valore paradigmatico della tragedia subita può essere utile per una presa di coscienza comune.

La stessa partecipazione istituzionale, che ha fatto sembrare i funerali della ragazza quelli di un funerale di Stato, come il grande afflusso di folla dentro e fuori la Basilica di Santa Giustina a Padova, sono stati l’occasione per una riflessione che può trovare nelle parole del padre degli spunti più che ottimi.

Mi sembra di poter dire che la selezione di questo evento ha portato sicuramente qualcosa di buono leggendo le parole pronunciate da un padre in cui difficilmente non ci si identifica.

il discorso di Gino Cecchettin

Il discorso è di una profondità disarmante, inusuale di fronte alla tempesta di emozioni che lo sicuramente ha investito, sono parole meditate in chi sembra aver raggiunto già un embrione di pace.

Sono parole che tendono allo spirituale senza schemi e identificazioni preconcette, che dimostrano una tensione che va oltre l’istinto, che cerca la bellezza. Apprendo ora che la mamma di Giulia era già scomparsa, questo dolore avrà sicuramente forgiato l’animo dei Cecchettin, e forse aumentato l’angoscia rispetto a quanto accaduto.

Il discorso andrebbe studiato a scuola, faccio mie alcune parti e considerazioni:

  • ogni femminicidio è svalutazione della vita della donna. Il rispetto della vita deve essere quindi incondizionato;
  • dobbiamo insegnarlo ai nostri figli. Tutti abbiamo responsabilità, non bisogna voltarsi dall’altra parte;
  • insegnare ad accettare la sconfitta. Nella cultura della prestazione, e della competizione assoluta, non c’è posto per i falliti, i perdenti, per chi «rimane indietro»;
  • i media seguono il sensazionalismo e alimentano polarizzazioni che si trasformano in contrapposizioni violente, la tecnologia spesso isola. Alimentare il dialogo la comunicazione effettiva ed empatica;
  • la parte che preferisco, le istituzioni dovrebbero portare avanti progetti contro la violenza, «Dobbiamo investire in programmi educativi che insegnino il rispetto reciproco, l’importanza delle relazioni sane e la capacità di gestire i conflitti in modo costruttivo per imparare ad affrontare le difficoltà senza ricorrere alla violenza».

Sono sicuro che la poesia finale di Gibran, in qualche modo, fosse pensata anche in relazione a Filippo Turetta. L’innominabile, colui che al solo nominarlo fa scatenare proprio le pulsioni che il padre (e la famiglia Cecchettin) vorrebbe combattere nella società.

Investire in progetti educativi

Il feretro di Giulia Cecchettin all'uscita della BasilicaLa consegna del padre di Giulia può essere già una realtà, in che senso? La proposta formativa della Rai offre diversi spunti che potrebbero essere prassi nelle scuole, ovviamente nei modi e nelle forme adatte al contesto e allo sviluppo, ma applicabili anche in fase precoce negli ultimi anni delle elementari, magari solo assistendo alla preparazione e alle performance dei più grandi.

Mi riferisco ad una specialità che dovrebbe essere introdotta come materia all’università, almeno nella facoltà di Giurisprudenza e in quella di Filosofia: quella del dibattito.

Il programma di Rai Scuola in collaborazione con il Miur si chiama Zettel Debate e porta due classi liceali al confronto, ecco il format: Un argomento, due posizioni a confronto.

Gli argomenti sono quelli seri, la democrazia, l’intelligenza artificiale, la privacy, la post verità: Vengono rappresentate le tesi maggiori e i gruppi studiano e cercano di argomentarle.

L’educazione al confronto nasce proprio con l’identificarsi «nelle ragioni dell’altro», esercizio che ci riesce proprio difficile già a livello istituzionale, se notiamo la disumanizzazione del nemico e la demonizzazione a cui siamo abituati proprio dai media.

Il cattivo esempio dell’immunologo

Un ultimo e agghiacciante esempio: il malore che ha colto Alessandro Meluzzi, famoso criminologo e anche novax — per semplificare, secondo le categorie da tifo proprie della classificazione polarizzante dei media — è stata l’occasione per un noto immunologo (con ruoli istituzionali, almeno di informazione, durante la pandemia) per deridere, partendo proprio dall’ictus, attraverso un tweet, le posizioni «avversarie».

Proprio i social, poi, sono il luogo della grave mancanza che affligge la nostra società a tutti i livelli (durante la pandemia, ci sono stati esempi preclari). La famosa bolla social che enfatizza le proprie opinioni, dandoci la percezione di una conferma multipla, alimenta invece il cosiddetto bias di conferma, ossia l’impossibilità di confrontarsi con altri punti di vista.

Basta vedere i commenti che seguono lo stesso discorso di Gino Cecchettin, dove paradossalmente si scatena il pensiero unico, l’occhio per occhio, la disumanizzazione.

Ebbene, già la sorella della vittima aveva avvertito dal non ricorrere all’eccezione, che chiede come risposta lo stato di eccezione, la sospensione di ogni ragionevole limite, prassi pericolosa istituzionalizzata sempre durante gli eventi del Covid.

Calarsi nei panni dell’altro

I giovani, e anche noi, hanno bisogno di potersi calare nei «panni dell’altro». Sarebbe utile proprio che gli insegnanti cerchino quanto più di far promuovere le tesi più lontane dalla formazione specifica di ognuno.

Un percorso certo difficile, nemmeno alla portata di chi scrive, però un traguardo da sollecitare. Si potrebbe iniziare col sostenere le tesi più familiari, alimentando un dibattito sereno, sul merito, senza attacchi alla persona, in cui giudicare più il modo della condotta, che la tesi portata avanti, promuovendo così un giudizio scevro da ideologie (magari utile anche per i futuri Magistrati). C’è un sito che promuove questo approccio, in maniera scientifica: https://www.proversi.it/.

Ovviamente, è su base volontaria, e la rappresentatività di una tesi deriva dalla maggiore o minore partecipazione ai dibattiti, e forse anche all’orientamento dei primi fruitori e creatori (è ovvio che si crea poi una risposta omologante).

Tuttavia una maggiore diffusione potrebbe portare ad una maggiore diversificazione e di conseguenza una maggiore conoscenza di tutti i punti di vista, evitando contrapposizioni, incomunicabilità o, peggio, violenza ideologica identificando nell’idea dell’altro un «pericolo».

Un convitato di pietra

Questo non è relativismo morale: la paura di perdere certezze, in realtà, è la paura di perdere i fragili sostegni che le sostengono insieme a visioni parziali e squilibrate.

Al contrario, un esercizio di questo tipo promuoverebbe valori più universali e giudizi più approfonditi.

Oltre ad aiutare a sviluppare una competenza specifica di «gestione dei conflitti», pratica a cui le forze di polizia devono peraltro sempre più fare ricorso, disinnescando, più che reprimendo, condotte pregiudizievoli e pericolose.

La nostra sensibilità a riguardo può riscontrarsi dalla reazione di fronte, non alle vittime, per le quali si fa a gara mostrare cordoglio, ma verso i carnefici.

L’esperimento di don Marco Pozza, colui che ha ispirato la famosa Via crucis del Papa letta da vittime e da condannati, è interessante a riguardo.

Sui social ha chiesto di pregare anche per Filippo, anche alla vittima dal Cielo, portando ad un florilegio di «pene di morte in diretta», le stesse che si «auguravano», tramite suicidio alcune persone dopo il ritrovamento del cadavere di Giulia.

Sul Prato della Valle, di fronte la Basilica, il sacerdote ha assistito al funerale di Giulia insieme ad un condannato per femminicidio che ha scontato integralmente alla sua pena, e che, ovviamente, deve ancora continuare il suo cammino di reintegrazione umana.

Le parole di costui, nel rivivere tra le «vittime», le conseguenze dello stesso efferato delitto da lui compiuto, riflettono uno stato d’animo che può essere illuminante per cercare di aiutarci a «guardare l’altro».

Il padre di Giulia, lasciando tra le ultime parole «perdono e pace», indica con il suo esempio una grande via da percorrere, una responsabilità a cui tutti siam chiamati.

Armando Mantuano *avvocato

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