DECRETO CAIVANO

Norme più severe
ma uno Stato più presente

Il Decreto Caivano e il contrasto alla delinquenza giovanile

 

Il Governo ha approvato il cosiddetto Decreto Caivano un disegno di legge che contiene una serie di misure volte a contrastare il fenomeno, sempre più diffuso, della delinquenza giovanile. Da un lato si intensificano le misure repressive, aggravando le pene e mirando a facilitarne l’effettiva applicazione. Dall’altro si tracciano le linee guida di una lunga serie di interventi che dovrebbero aiutare a prevenire i reati. E su questo torneremo più avanti.

L’omicidio di Caivano

Per contrastare la delinquenza giovanile occorre risanare i quartieri degradati presenti non solo a Caivano ma su buona parte del territorio nazionaleAll’origine delle nuove norme, com’è noto, ci sono i recenti, e tragici, avvenimenti di cronaca. A cominciare da quello di Caivano, nell’hinterland di Napoli. L’uccisione del giovane musicista Giovambattista Cutolo, di 24 anni.

Il responsabile è un sedicenne che il 31 agosto scorso era in compagnia degli altri membri della sua baby gang e che lo ha ammazzato a colpi di pistola. Un litigio banale in cui la vittima aveva cercato di fare da paciere, ma che si è tramutato in omicidio.

Quasi normale, in quel contesto. Chi campa di violenza, con la violenza convive. E con la violenza uccide. Può accadere in qualsiasi momento ed è successo anche stavolta.

L’ingresso precoce nel crimine

Non si tratta di ragazzini che si atteggiano a criminali, ma di criminali che hanno iniziato a delinquere molto presto e che adesso stanno crescendo.

In quella direzione si sono avviati e a quelle mete continueranno a tendere: i soldi facili, il potere della sopraffazione, l’ebbrezza di sfuggire, almeno per un po’, a un destino di difficoltà senza fine, tra lavori di poco conto e di scarso reddito.

L’ergastolo della povertà, diciamo così. E il crimine, paradossalmente, come tentativo di evasione.

I singoli episodi si moltiplicano. E specialmente se ci scappa il morto sono seguiti dal classico iter, o dal solito circo, dell’attenzione mediatica a scartamento ridotto.

I riflettori si accendono, restano accesi solo per un po’, poi si spengono. Insieme al cordoglio generale. E alle dolenti riflessioni dei commentatori. Politici inclusi. O politici in prima fila.

Un copione che si ripete. Un copione che va stracciato, una volta per tutte, e riscritto daccapo.

Prosciugare il brodo di cultura della violenza

Ma certo: la repressione da sola non basta. E soprattutto non basta, non può bastare, a raggiungere in quattro e quattr’otto la soluzione vera e definitiva dei problemi.

Quando i reati sono gli effetti di un degrado sociale ad ampio o amplissimo raggio, la via giudiziaria non è sufficiente ed è sulle cause che bisogna intervenire.

Prosciugando il brodo di coltura in cui le infezioni allignano e si rafforzano, prima di manifestarsi all’esterno.

La responsabilità penale è dei singoli individui che commettono i crimini. Quella collettiva consiste nell’assecondare, o viceversa nel combattere, le condizioni generali che predispongono il verificarsi di quei fenomeni.

Tutto questo è ineccepibile. Ma a una condizione: che non rimanga un principio astratto. O addirittura, molto peggio, un alibi capzioso.

Siccome la repressione non basta, allora non si fa un granché nemmeno in quell’ambito.

Invece di aggiungere al lavoro delle forze dell’ordine e degli inquirenti delle misure più ampie e capillari – mirate al risanamento dei territori in cui la stragrande maggioranza dei cittadini vive male e la delinquenza, perciò, trova il suo habitat ottimale – ci si limita a invocarle.

Ottenendo così, alla resa dei conti, un esito opposto a quello che si dice di auspicare. Anziché affiancare, allo stesso tempo, una potente azione repressiva e un’assidua opera di risanamento, si finisce con il non avere né l’una né l’altra. Poca repressione e nessun risanamento.

Il «mea culpa» che non arriva mai

La realtà attuale, che scaturisce da decenni e decenni di bei discorsi rimasti appesi per aria, sta lì a dimostrarlo.

Ed è proprio da qui che dovrebbero ripartire tutti quelli che ancora oggi, di fronte al «decreto Caivano» appena emanato dal Governo, si sono precipitati a rispolverare la loro tiritera preferita.

Come la segretaria del Pd Elly Schlein, che non ha trovato di meglio che sollevare la consueta, abusata perplessità: «La prima impressione è che si insista solo sulla repressione, ma serve un investimento sulla prevenzione».

Chiacchiere. Se a tutt’oggi questi nobili distinguo non hanno portato a nessun miglioramento sostanziale, la constatazione di fatto dovrebbe sfociare immediatamente anche in un mea culpa.

Con la scusa che era difficilissimo fermare certi fenomeni, come il dilagare dei social, si è lasciato che continuassero a crescere.

Giorgia Meloni ha detto, giustamente, che il Governo «ci ha messo la faccia». Bene. Ma d’ora in avanti è necessario che ci metta anche le mani: trasformando gli interventi eccezionali in prassi corrente.

Accanto alla repressione dei reati già commessi, è indispensabile una pressione incessante sul mondo criminale in cui essi maturano. Le piazze di spaccio operano di continuo. E di continuo vanno aggredite. Intorno alle gang va fatta terra bruciata.

Altro che la «terra di nessuno» in cui, finora, hanno prosperato pressoché indisturbate.

Gerardo Valentini

 

 

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