PATRICK ZAKI È LIBERO

L’happy end non chiude,
ma apre la discussione

Riflessioni a margine della vicenda di Patrick Zaki

 

Una vittoria di squadra. O magari, perché no, «di Stato». La liberazione di Patrick Zaki, che nel giro di ventiquattro ore è passato da una condanna a tre anni di reclusione che lo avrebbe rispedito in carcere alla grazia concessa dal presidente egiziano al-Sisi, andrebbe letta innanzitutto in questo modo.

Non tanto il successo di una singola parte, quanto il buon esito di attività composite. Che certamente sono state orchestrate innanzitutto dal Governo in carica, ma che si sono avvalse di professionalità istituzionali alle quali è sbagliato attribuire una specifica coloritura politica.

Altrimenti non si fa altro che ad alimentare le solite contrapposizioni a priori. I soliti balletti di segno opposto, ma viziati dalla stessa faziosità, tra chi esalta i propri beniamini e chi sminuisce, o infama, i propri avversari.

Un «successo» collettivo dell’Italia

Un manifesto affisso a Bologna per la liberazione di Patrick ZakiIn questo caso, e in innumerevoli altri, ciò che dovrebbe prevalere è proprio l’idea di una nazione che va al di là degli schieramenti di partito. E che mantiene, al di là delle differenze tra i vari esecutivi e le relative maggioranze parlamentari, dei tratti comuni e condivisi.

L’esempio più ovvio è quello della tutela del «made in Italy: accreditare un’immagine vincente dei prodotti nazionali non è, di per sé, un obiettivo di destra o di sinistra. Come non lo è, in ambito culturale e turistico, valorizzare il nostro eccezionale patrimonio di attrattive naturali e artistiche.

Un approccio analogo, però, è essenziale anche sul piano dei rapporti esteri. Rispetto ai quali bisogna essere capaci di distinguere tra le grandi linee strategiche e le questioni particolari. Tra ciò che è imprescindibile, quand’anche dannoso, e ciò che si può accettare, benché imperfetto.

Il compito cruciale della diplomazia consiste proprio in questo: nel trovare punti di accordo – di accordo negoziale – con quegli Stati e quei governi ai quali si è meno affini.

Non bisogna essere necessariamente amici, per stabilire delle relazioni proficue. E pervenire a una specifica intesa non equivale, sempre e comunque, a un avallo generale e indiscriminato delle politiche altrui.

Altrimenti, dalla Cina in giù, si dovrebbe avere un atteggiamento assai più intransigente. Che non abbiamo noi. Né tantomeno il capofila dell’Occidente «liberaldemocratico»: gli Stati Uniti d’America.

Le «zone grigie» della diplomazia

La verità è elementare. E chi la disconosce può scegliere, a piacer suo, se passare da sciocco o da ipocrita.

La verità è che qualsiasi dissidio si inscrive nel quadro dei rapporti di forza tra i contendenti di turno. Rapporti, inoltre, che non sono quasi mai solo «a due» ma che si innestano, a loro volta, sulle rispettive reti di alleanze e di contrasti. Formali o non formali. Palesi oppure striscianti.

Se questo è lo sfondo, l’altro aspetto fondamentale è che tutto, o quasi, è in perenne mutamento. Ciascun soggetto cerca di migliorare la propria posizione, sull’amplissimo e mutevole orizzonte che va dall’immediato al lungo termine, e i riposizionamenti sono pressoché infiniti. Da quelli minuscoli a quelli di ben altra portata.

Torniamo alla vicenda di Patrick Zaki, allora. Cercando di sgombrare il campo da un bel po’ di falsi presupposti. E ripristinando, invece, quegli elementi di realtà che sono indispensabili per ragionare correttamente.

Le accuse egiziane a Patrick Zaki

Dopo il suo arresto il 7 febbraio 2020 all’aeroporto del Cairo, Patrick Zaki era stato accusato di gravi reati che andavano dalla minaccia alla sicurezza nazionale, all’incitamento a manifestazione illegale, sovversione, diffusione di notizie false e propaganda per il terrorismo. Il dato di fatto è che le sue sorti dipendevano dal governo egiziano.

Del quale, naturalmente, è lecito pensare tutto il male possibile, ma che di sicuro non può essere destituito d’incanto solo perché l’Italia, o l’Europa, non ne approvano le finalità e i metodi.

Ma è proprio qui, che risiede l’errore decisivo. È nel credere, e nel pretendere, che i nostri criteri debbano valere anche fuori dai nostri confini. Per cui ci scandalizziamo, laddove ciò non accada. E quel che è peggio cadiamo dalle nuvole, o fingiamo di farlo, quando le stesse libertà che noi riteniamo indiscutibili siano invece negate. Conculcate. Represse.

L’illusione di non correre rischi

Resta in piedi il contenzioso con l'Egitto per il rapimento e l'uccisione dell'italiano Giulio Regeni avvenuta a Il Cairo nel gennaio 2016,Nella sua ricostruzione online, non ancora aggiornata con la notizia della grazia presidenziale, Amnesty International la mette proprio in questi termini. Scrive testualmente che Zaki «è un prigioniero di coscienza detenuto esclusivamente per il suo lavoro in favore dei diritti umani e per le opinioni politiche espresse sui social media».

Appunto: categorie prettamente occidentali. Che a noi possono sembrare indiscutibili, ma che altrove non lo sono affatto. Obbligandoci quindi, che ci piaccia o no, a tenerne conto. Vincolandoci a farlo anche se intanto continuiamo a professare i nostri principi e ad adoperarci affinché si diffondano sempre di più.

Patrick Zaki, e purtroppo anche Giulio Regeni, erano tenuti a saperlo. E ad agire di conseguenza, adottando le necessarie cautele. Combattere un sistema oppressivo è meritorio, ma l’idealismo non basta. Ci vuole invece il massimo di realismo: tu vuoi colpire loro, loro non esiteranno a colpire te.

Provenire da una società di altro tipo e con altre garanzie non comporta nessun salvacondotto. E anzi, paradossalmente, rischia di armare la mano dei regimi che si vorrebbero costringere a cambiare: perché gli si daranno, gli si regaleranno, delle occasioni di ricatto.

Gerardo Valentini

Lascia un commento