80a MOSTRA DEL CINEMA

Photophobia, una luce
nel buio della guerra

Una scena di Photophobia, la pellicola dei registi slovacchi Ivan Ostrochovský e Pavol Pekarcik presentata come evento speciale nella 20a edizione della Giornata degli autori alla Mostra del Cinema di Venezia.

 

In Ucraina l’autunno inizia il primo di settembre, ed è il giorno in cui ricomincia l’anno scolastico. Quest’anno, molti bambini non sono potuti essere nel cortile della scuola per la tradizionale festa d’inaugurazione dell’anno scolastico. Alcuni sono profughi all’estero, altri non ci sono più perché sono stati uccisi.

La locandina di Photophobia dei registi slovacchi Ivan Ostrochovský e Pavol PekarcikCi sono però due ragazzini, Niki e Vika, che hanno un motivo speciale per non esserci: sono andati a Venezia, per presentare un film di cui sono protagonisti.

Il primo di settembre, infatti, Photophobia è stato presentato al pubblico alla ottantesima Mostra d’arte cinematografica di Venezia.

Grazie ai registi slovacchi Ivan Ostrochovský e Pavol Pekarcik, e al loro piccolo capolavoro, i due piccoli attori, insieme agli spettatori che hanno riempito la sala, sono tornati sottoterra per i 71 minuti della durata del film.

La stazione degli eroi

Una scena del film di Photophobia dei registi slovacchi Ivan Ostrochovský e Pavol Pekarcik ambientato nella metropolitana di KharkhivLa stazione della metropolitana di Kharkiv che è diventata loro rifugio è «Heroiv Truda», ovvero «Eroi del lavoro», un nome quanto mai azzeccato per il capolinea della linea che porta a Saltivka, uno dei più grandi quartieri residenziali proletari di Kharkiv.

In agosto sono stata in quella stazione più volte, e in una di quelle sono caduta sui gradini. Il piede mi fa ancora male, ma questo dolore è nulla rispetto alle cicatrici sul cuore dei protagonisti di questo delicatissimo documentario, che segue la vita delle persone rifugiate nella metro in primavera del 2022.

Più che seguire, la cinepresa ci vive insieme. Non so come abbia fatto l’operatore a diventare trasparente, quante ore di riprese avesse girato, quanti fossero i volti, i corpi, i destini rimasti fuori dal montaggio finale.

Il risultato è una storia leggera e luminosa, con un tocco di magia.

Sottoterra per sopravvivere

Una scena del film di PhotophobiaQuasi l’intero film è ambientato dentro la stazione, ed è stato girato fra aprile e giugno dell’anno scorso, nella stagione più calda dei bombardamenti a Kharkiv.

I registi, mossi dal dovere di documentare gli eventi, sono andati nell’epicentro del pericolo.

Finite le riprese hanno composto gli stralci di realtà in una narrazione dell’umanità che emerge, nei tempi oscuri, anche sotto i missili. Letteralmente, sotto.

Per la colonna sonora, non c’è bisogno di effetti speciali. Roman Kurhan e Michal Novinski ci regalano anche musiche originali di struggente lirismo, ma il resto è fatto di boati e bisbigli, stridore e sospiri.

Sembra ci sia un gigantesco treno che passa sopra la stazione: solo che i treni in realtà sono fermi, nascosti nei tunnel per diventare, a loro turno, un nascondiglio per i rifugiati.

Di questa stazione della metro scopriamo tutti gli angoli: i cunicoli tecnici inaccessibili ai passeggeri e le sale di transito di solito dinamiche, ora bloccate in una dimensione surreale del tempo sospeso. La stazione, costruita negli ultimi anni dell’Unione Sovietica, è arredata con il massimo sfarzo: granito, marmo, ferro battuto, bassorilievi in porcellana.

L’invasione russa l’ha trasformata in un dormitorio: nei corridoi, i negozi di solito aperti sono serrati, i tornelli sono spalancati. In questo mondo al rovescio, generato dalla violenza, l’aria aperta e il cielo luminoso sono forieri di pericoli, mentre il non-luogo sotterraneo, abitualmente frettoloso e impersonale, diventa l’arca di solidarietà e di speranza.

Il sogno di normalità nella Metro di Kharkiv

Un'altra immagine dal film di PhotophobiaLe attività normali come tornare a casa, fare un giretto al parco, diventano un sogno proibito: dal 24 febbraio 2022 la popolazione civile è nel mirino degli invasori. Rendersi conto che non si torna indietro, che la casa non c’è, è difficile.

Noi, spettatori, – e i protagonisti presenti in sala – sappiamo già che la realtà abituale in quei giorni ha subito una scossa tellurica.

Nel continuum spazio-temporale della narrazione, loro non lo sanno ancora. Si aggrappano alle abitudini quotidiane: cucinare la cena, misurare la pressione, fare i compiti, lavarsi i denti, giocare con il telefonino, girare i video di TikTok. Questa realtà può anche essere divertente.

Un microcosmo che lotta anche con l’allegria

Una scena di PhotophobiaL’arrivo dei numerosi reporter stranieri, vestiti in modo impeccabile, fa divertire i bambini che li imitano giocosamente. Ma il colmo di allegria arriva con un estroso anziano fisarmonicista che inganna l’attesa, cantando le canzoni d’amore sovietiche e corteggiando le attempate vicine.

Anche Nikita, seguendo i consigli dell’arzillo musicista, cerca e trova l’anima gemella, condividendo con la coetanea Vika le gioie e le tristezze.

Spontaneamente, nella stazione si crea un microcosmo senza barriere, dove le persone abituate a vivere ciascuno a casa propria si ritrovano rovesciate all’esterno e rimescolate loro malgrado. Giovani e anziani dormono fianco a fianco; perfetti sconosciuti si fanno confidenze; gatti e cani guardinghi e stressati completano la piccola babele fatta di tende e sacchi a pelo.

C’è poco di normale nello stare ammassati, ignari della sorte dei propri cari fuori dal rifugio. Eppure, è molto meglio del mondo esterno, dove le madri muoiono coi neonati in braccio e i ponti crollano sotto gli occhi allibiti di chi pensava di attraversarli.

Due approcci al dramma della guerra

Una scena di PhotophobiaNiki, il dodicenne protagonista, non sa quello che sanno i grandi. Non a caso i suoi per telefonare cercano sempre di appartarsi, onde evitare che i figli sentano degli orrori del mondo esterno.

Un visualizzatore delle diapositive tascabile, trovato da Niki, diventa una finestra immaginaria che collega il protagonista con l’esterno, e con tutte le altre anime che osservano la rovina del proprio mondo.

Grazie a questo espediente si aggiunge un tocco di realismo magico alla cruda cronaca degli eventi. Il film non esula, però, dall’ambito del cinema-verità, teorizzato da Edgar Morin su esempio di Dziga Vertov, cineasta ucraino d’avanguardia.

[…] Gli autori di Photophobia hanno evitato la trappola della semplificazione o della morbosa attenzione verso la sofferenza, e hanno raccontato sinceramente l’infanzia in guerra attraverso il prisma dell’empatia e del rispetto.

Marina Sorina

 

 

L’articolo è stato ripreso dal magazine Heraldo del 5.9.2023

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