INTERVISTA A ISABELLA AGUILAR

Da The Place
ai progetti per Netflix

 

Isabella Aguilar è una sceneggiatrice cinematografica e televisiva. Ha scritto i film Dieci Inverni, vincitore di numerosi premi, e In fondo al bosco, oltre ad avere scritto diverse serie tv per Rai e Mediaset. Il suo ultimo lavoro è The Place, in questi giorni al cinema (qui la recensione). Il film, scritto insieme al regista Paolo Genovese, già autore del celebre Perfetti Sconosciuti, ha riscontrato un grande successo al botteghino. Abbiamo incontrato Isabella per parlare del film e dei suoi impegni futuri: dal nuovo film americano di Genovese fino alla prossima serie Netflix italiana, Baby.

Come è nata la collaborazione con Paolo Genovese?

Ho fatto un colloquio con Paolo Genovese tempo fa, si parlava di serie tv ma lui mi ha detto che stava lavorando ad un soggetto per il cinema con Rolando Ravello e Paolo Costella, già autori di Perfetti sconosciuti, e mi ha proposto di partecipare a qualche riunione. La collaborazione è nata così, spontaneamente. Loro erano in partenza per i primi sopralluoghi a New York e fortunatamente ho fatto in tempo a firmare e a unirmi al gruppo. E’ stata una bellissima esperienza. Il film si chiama «Il primo giorno della mia vita» e Paolo lo girerà a breve, credo in primavera. Nel frattempo abbiamo pensato di adattare la serie canadese-americana The Booth at the End, che peraltro avevo già sottoposto ad altri produttori senza successo. Invece Paolo ha visto subito il potenziale del progetto e abbiamo scritto The Place con molto slancio.

Durante la scrittura di The Place avevate già qualche idea sul cast?

Paolo lavora con i migliori attori italiani, lo stimano, quindi le idee di cast sono nate molto presto. Per me era come giocare al fantacalcio: «qui chi ci starebbe bene?», «qui chi ci mettiamo?». Solo che non era un gioco, Paolo ha davvero messo su una nazionale di undici fuoriclasse. Ed è stato molto stimolante scrivere il film sapendo già chi avrebbe interpretato la maggior parte dei ruoli.

Un suo giudizio sul personaggio di Mastandrea, su cui ruota tutto il film, e sul rapporto con le persone che gli chiedono di esaudire i loro desideri?

Mastandrea interpreta un personaggio che col procedere della storia, man mano che si sviluppa il suo rapporto con i suoi vari «clienti», entra in crisi. Il suo compito è quello di un middle man, un intermediario di un potere superiore che non è Dio né il diavolo, ma volendo è entrambe le cose. L’espediente fantastico serve a entrare nel vero cuore del film, che ha a che fare con la morale, con il libero arbitrio. Tutti noi possiamo sentirci «brave persone» finché non siamo spinti a misurarci con delle scelte veramente dirimenti. «The Place» è un esperimento etico: quanto saremmo disposti ad alimentare il lato oscuro di noi stessi, il mostro che è in noi, per ottenere ciò che vogliamo?

È molto coraggioso e complesso adattare un soggetto televisivo del genere al lungometraggio, con le sue regole e la sua durata. È d’accordo?

C’è da dire che «The Booth at the End» non è una serie lunga. Il formato originale è quello per il web, da 2 minuti a puntata, e tutta insieme la prima stagione dura poco più di un film. Abbiamo scritto due storie ex novo. Abbiamo rilavorato tutte le altre e abbiamo raffinato gli intrecci, adattandoli al nuovo formato. Il gioco di incastri durante la scrittura è stato uno dei fattori più appassionanti.

C’è tra le tante storie di The Place una che l’ha colpita di più?

Le storie che abbiamo scritto da zero. In particolare, quella del personaggio interpretato da Vittoria Puccini: una donna che crede di desiderare qualcosa, ma quando la ottiene scopre quanto sia terrificante. La sua storia ci insegna che il tempo è un fattore che neanche Dio o il Diavolo possono alterare.

I film scritti da lei si allontanano dagli schemi classici del cinema italiano contemporaneo, dal genere thriller quasi horror praticamente mai trattato in Italia negli ultimi tempi (In Fondo al Bosco) fino a sceneggiature con strutture particolari (Dieci Inverni, The Place).

Mi piacciono molto le strutture anomale. Mi piace giocare con la struttura, ma sempre mantenendo il calore emotivo del racconto. Ho un debole per film come Pulp Fiction, Magnolia, Babel, Blue Valentine, Two for the Road… Anche il prossimo film che ho scritto sarà molto particolare, è un musical, attraversa un ampio arco temporale e si muove in un gioco potente di ellissi.  Anche il film americano di Paolo Genovese gioca col tempo, ma non posso dire di più.

Secondo lei è questa la direzione che il cinema italiano deve intraprendere?

Credo che il cinema italiano debba rinnovarsi, come poi in effetti sta già facendo negli ultimi anni. Stiamo uscendo da una certa pigrizia, forse, dagli Anni Novanta del minimalismo «due camere e cucina», e stiamo azzardando di più su generi, forme e contenuti.

Tra i suoi prossimi progetti c’è Baby, la nuova serie tv italiana targata Netflix. Lei come si pone verso la serialità e sul rapporto tra questa e il cinema?

Parlando grossolanamente, la serialità sta al cinema come il romanzo al racconto. Io preferisco leggere romanzi e, forse, preferisco scrivere serie. C’è più spazio per inventare, più mondo possibile, più libertà nei formati. E non si è schiavi del finale.

Può parlarci più nello specifico del progetto di Baby?

«Baby» prende spunto da un fatto di cronaca, la storia delle squillo minorenni dei Parioli, ma si tratta solo uno spunto. Lo definirei un Teen Drama di nuova generazione. Sono Creative Showrunner della serie insieme a Giacomo Durzi, ed è un ruolo non comune nel panorama italiano. Lavoriamo con un collettivo di cinque giovani sceneggiatori di talento, che sono anche i creatori della serie, i GRAMS, e i produttori italiani sono i fratelli De Angelis, giovani anche loro e molto dinamici. E’ un vero e proprio prototipo, «Baby». Per ora è una grande responsabilità ma pure un bel divertimento.

Francesco Fratta

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