POLVERE DI STELLE: GARRINCHA

Il campione del mondo
con la maglia del Sacrofano

 

Se nei vari parterre televisivi e radiofonici qualcuno ponesse la domanda «qual è stato il più grande calciatore che ha giocato nella Capitale?» credo che nella ridda di nomi che ne uscirebbero fuori (Piola per i laziali, Bernardini, Falcao e Totti per i romanisti, molto probabilmente sarebbe stato fatto un torto al più grande calciatore di tutti i tempi che è passato per la Capitale senza aver vestito però ne la maglia giallorossa ne quella laziale, stiamo parlando del brasiliano Manè Garrincha, capace di guadagnarsi l’appellativo di «Alegria do Povo» (gioia del popolo) e definito da qualcuno il miglior talento del calcio brasiliano, superiore persino a Pelè, che ha concluso la sua straordinaria carriera in Prima Categoria nel Sacrofano, squadra dell’omonimo paesino di 7.000 abitanti alle porte di Roma.

Stiamo parlando di un campione del mondo nel 1958 e nel 1962 con la maglia del Brasile, considerato il più grande dribblatore di tutti i tempi, che morì però povero ed alcolizzato nel 1983 alla soglia dei cinquant’anni. Nato con una malformazione fisica che gli aveva causato una differenza di sei centimetri tra una gamba e l’altra, Garrincha sfruttò questa sua peculiarità, che gli conferiva un andatura ciondolante, per rendersi imprendibile per qualsiasi avversario.

Ma come è stato possibile che un mito del calcio come lui sia finito a giocare a Sacrofano? È il 1969 e la carriera di Garrincha è al tramonto, ha lasciato il Botafogo e conduce una vita disordinata tra alcool, incidenti stradali, donne e figli da riconoscere. In questo periodo conosce Elza Soares, una soubrette molto richiesta in Europa, ed a Roma è un periodo in cui impazza «la Dolce Vita», Elza si trasferisce dunque nella Capitale dove balla nei locali importanti e lui, anche per sfuggire ai suoi guai con la legge in Brasile, la segue in questa avventura accontentandosi di un modesto impiego da mille dollari al mese come testimonial per l’Istituto Brasiliano del Caffè in Italia, e vanno ad abitare a Torvaianica, dove si confonde con giovanotti che facevano tornei per conto di una macelleria sul litorale romano, il calcio professionistico ormai appare solo come un ricordo lontano.

Mentre lei lavorava nei locali del centro, lui spesso se ne andava la sera a Campo de’ Fiori a palleggiare oppure ad improvvisare partitelle con i giovani che si radunavano nella piazza, con una piccola folla che puntualmente si radunava a mirare quello sconosciuto e fantastico giocoliere senza sapere di avere davanti agli occhi il grande Garrincha.

Ma a Roma c’è ancora un suo amico, il bomber giallorosso ed ex suo compagno nel Botafogo, Dino da Costa che ha smesso di giocare ma che, per diletto, ha iniziato ad allenare i dilettanti del Sacrofano. E con buoni risultati visto che in un crescendo di vittorie trascina la squadra in Prima Categoria creando un ambiente sereno e senza pressioni, l’ideale quindi per far ritrovare al suo grande amico Garrincha, che nel frattempo a Roma nel mezzo del suo amore burrascoso per Elza Soares si era nuovamente riperso tra i demoni dell’alcol, la voglia di divertirsi a tirare nuovamente quattro calci al pallone.

E Da Costa qui riesce in un’impresa che sembrava impossibile, convincere il pluri-titolato campione del mondo, a rimettersi i scarpini ed a vestire la maglia del Sacrofano, nonostante sia appesantito e sfrutti ogni momento libero possibile per attaccarsi alla bottiglia, anche se il suo talento, seppur annacquato e stordito dalla sua vita irregolare, lo rende comunque una sorta di alieno in mezzo ai suoi volenterosi compagni. Ormai Garrincha non dà più affidabilità, in preda all’alcolismo ed alla depressione ha intrapreso quella malinconica china che lo porterà poi alla morte, Da Costa sa che reclutarlo per un intero campionato sarebbe impossibile, ma per un torneo con poche partite potrebbe essere più facile e Garrincha, senza soldi, accetta di giocare per centomila lire a partita.

Il Sacrofano prende quindi parte ad un quadrangolare a Mignano Ponte Lungo, e Garrincha trascina la squadra fino alla finale. Ma proprio quel giorno, proprio nel giorno della finale si presenta al campo in condizione disastrose, reduce molto probabilmente da una notte in bianco ed ancora molto più probabilmente da qualche bevuta di troppo, tanto che Da Costa lo schiera inizialmente in panchina. Ma il Sacrofano va sotto 0-1 e nella ripresa il mister decide di schierarlo raccomandandogli di non sprecare quelle poche energie rimaste e di cercare di sfruttare qualche calcio piazzato. E Garrincha prenderà alla lettera le disposizioni del suo mister segnando due gol direttamente dalla bandierina del calcio d’angolo, uno sul primo palo e l’altro sul secondo (!!!). Di questa partita si è persa la memoria, viene tramandata attraverso i racconti di chi era lì, di quei pochi fortunati che hanno potuto dire «io quel giorno c’ero…».

Garrincha tornò in patria nel 1972, fece qualche partita con l’Olaria per dare poi l’addio al calcio a 39 anni. La sua dipendenza dall’alcol lo portò alla separazione con Elza Soares, intraprese poi una nuova relazione con un’altra donna dalla quale ebbe il quattordicesimo figlio, perlomeno tra quelli riconosciuti. Sempre più povero gli si offrirà di allenare i bambini meno fortunati, ma continua a bere forte e la cirrosi lo sta devastando. Tre giorni di sbronze nel gennaio del 1980 metteranno definitivamente fine alla sua vita.

Garrincha è nato povero e povero è morto, l’unica missione che nella vita gli abbia dato soddisfazione è stata regalare allegria, attraverso il calcio, ai poveri come lui. Il suo sepolcro, in un malinconico stato di abbandono e privo di visite, recita «Qui riposa in pace colui che fu la Gioia del Popolo, Manè Garrincha».

Marco Biccheri

 

Nella foto di copertina: Manè Garrincha con un giovane Pelè. Sopra: Garrincha con la moglie Elza Soares e la Coppa Rimet. Sopra: il campione brasiliano con la maglia del Sacrofano.

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