A CASA DI DONNA MUSSOLINI

Una storia italiana
nel vortice del conflitto

Lajos Szegö, la moglie Maria e i loro tre figli. Nel 1944 sfollati da Forlì trovarono rifugio a casa di Donna Mussolini

 

di Adriano Minardi Ruspi

A casa di Donna Mussolini è un romanzo edito da Solferino, scritto da Cristina Petit e Alberto Szegö. Racconta le vicende del padre dell’autore e della sua famiglia. Lajos è un giovane ingegnere ungherese, di religione ebraica, che inizia un’attività di lavoro in Italia subito dopo la fine della Prima guerra mondiale, nella quale aveva sperimentato il calvario della prigionia in Siberia.

Edvige Mussolini (1888-1952), sorella di Benito, nella foto intorno ai trent'anniLajos decide quindi di iniziare una nuova vita fuori dal suo paese di origine, lasciando una famiglia dove aveva iniziato ad amare e praticare cultura al di fuori e nella sua cerchia familiare.

Inizia a costruire la sua vita inizialmente a Roma dove conosce e sposa Maria, una giovane infermiera, e poi in larga parte a Forlì. La vita della famiglia viene allietata dalla nascita di tre figli ed il libro abbraccia anche larga parte della loro infanzia e giovinezza.

Si tratta di un’opera con tante particolarità, è un romanzo scritto molto bene, di lettura accattivante e presenta dicevamo una serie di curiosità che lo rendono estremamente interessante sotto il profilo dei contenuti.

In primo luogo la curiosità nasce proprio dal titolo A casa di Donna Mussolini perché, nel precipitare degli avvenimenti della Seconda guerra mondiale, la famiglia è costretta a sfollare da Forlì per sfuggire ai bombardamenti ma soprattutto per il rischio e il timore di Lajos di essere catturato perché ebreo e avviato quindi alla deportazione.

Lo sfollamento della famiglia Szegö da Forlì

La famiglia inizia un lungo peregrinare per lo sfollamento nelle campagne e nella fascia appenninica nella provincia di Forlì e un doloroso girovagare che li porta ad essere ospitati in conventi oppure in situazioni predisposte da tutti quegli amici che li avevano conosciuti ed apprezzati.

Vengono ospitati, grazie all’intercessione del Vescovo di Forlì, presso l’ospedale di Premilcuore e poi in una villa nei dintorni, di proprietà niente meno che di Edvige Mussolini, sorella del più noto Benito.

Questa situazione dà vita a una a una serie di vicende che sono innanzitutto dominate dalla paura di essere riconosciuti e denunciati, dovuta al fatto che nella stessa villa a tre piani che ospita la famiglia e naturalmente la famiglia di Edvige Mussolini, viene anche ospitato un comando tedesco.

La famiglia vive quindi, per un certo periodo, nella paradossale condizione di essere sostanzialmente circondata da nemici espliciti e dichiarati, quale erano appunto i tedeschi, e da nemici presupposti quale si riteneva potessero essere i componenti della famiglia di Edvige Mussolini, con la quale peraltro sin dall’inizio instaurano un rapporto estremamente semplice e complice, soprattutto per la chiassosa ed allegra presenza dei tre bambini della coppia.

Tuttavia non verranno mai denunciati alle autorità tedesche, sebbene sin dall’inizio la loro condizione fosse ben nota alla sorella del Duce.

A casa di donna Edvige

Il libro è interessante in questa chiave di lettura perché Lajos è un uomo estremamente colto e curioso, capace di analizzare in profondità situazioni ed interlocutori (al contrario della moglie Maria, estremamente «sanguigna» nei pensieri e nei giudizi), ma anche pacato e razionale nelle riflessioni anche sulla propria vicenda e condizione personale e familiare.

Il rischio e la paura della persecuzione, il timore di essere catturato e di esporre la famiglia a rappresaglie non lo privano mai della lucidità di giudizio, ne della curiosità di capire tutte le ragioni di ciò che sta succedendo. Osserva quindi la sua condizione certo con paura, perché legata alle sorti della sua famiglia, ma fondamentalmente sempre con una grande imparzialità di giudizio.

Tutti gli avvenimenti che accadono intorno al proprio nucleo familiare non lo portano mai a giudicare le persone in base a pregiudizi ma solo per quello che le persone esprimono e rappresentano, per come effettivamente sono e soprattutto cercando e molto spesso trovando il bene nelle stesse e non invece la conferma del pregiudizio o del preconcetto.

Il ragionare secondo il principio per cui il nemico rimane tale a prescindere da azioni o comportamenti concreti non appartiene alla sua natura e sempre si sforzerà nella sua vita di cercare nelle persone la luce che accende il bene ed oscura il male.

Altra chiave di lettura interessante è che il libro è costruito da un lato sulla narrazione con gli occhi del padre, della madre o comunque dei «grandi», una narrazione comunque quieta, pacata sinché si può e serenamente oggettiva, per quanto serena possa essere la valutazione di un padre e di una famiglia in costante pericolo di vita, e dall’altra è invece dominata dai tre figli, tutti maschi, avuti dalla coppia (di cui uno morirà giovanissimo dopo la guerra per una malattia).

Il racconto attraverso gli occhi dei bambini

È in questa seconda chiave di lettura che la storia viene narrata attraverso gli occhi e le parole dei bambini, che vivono la tragedia di essere immersi in un conflitto che si avvicina sempre di più, che quindi passa dall’immagine dei cinegiornali, delle riviste e dei giornali che non mancano mai nella loro casa di famiglia, ad una dimensione reale, vissuta ogni giorno e addirittura quasi praticata perché riprodotta nei loro giochi di bambini.

La dimensione infantile consente di superare la drammaticità oggettiva della situazione di difficoltà anche perché è sempre presente il costante riferimento alla dimensione familiare basata sul profondo affetto che i ragazzi nutrono nei confronti dei genitori e nel rapporto con un padre attento alla loro crescita e pronto ad educarli alla comprensione ed alla razionalità di giudizio. Capace sempre di insegnargli a dividere il bene dal male, ma in maniera concreta, vissuta, basata sull’esperienza diretta.

Un libro che sa essere anche toccante quando affronta il periodo successivo alla fine della guerra perché la vita della famiglia, anche se funestata dalla tragedia della morte del primogenito deceduto a vent’anni nel 1950, non può che continuare e nel fervore della rinascita e della ricostruzione post-bellica i figli testimoniano dell’educazione ricevuta dai genitori in maniera costante e fattiva.

Una narrazione pacata ma non reticente

Quello che colpisce è la narrazione estremamente pacata degli avvenimenti ma non reticente o neutrale perché, pur schierandosi come ovvio apertamente a favore della resistenza e delle sue ragioni ideologiche, riesce a mantenersi sempre in toni pacati in cui viene sempre distinto nella fase storica il giudizio sui fatti oggettivi rispetto a quello sulle persone.

Il protagonista leggendo nel dopoguerra le memorie di Donna Edvige Mussolini e poi apprendendone la morte nel 1952, elabora un giudizio estremamente positivo nei confronti di una donna che aveva vissuto in modo personale la tragedia della guerra esattamente come l’avevano vissuta loro.

Pur legata da un inevitabile affetto e amore nei confronti dell’unico fratello che le era rimasto (il duce del fascismo), non aveva mai cessato di seguire quello che le dettava la morale del cuore che era poi la morale dell’amore e della cura del prossimo, indipendentemente dalla razza, dalla religione o dall’ideologia professata.

Donna Edvige, insomma, gli aveva dato da pensare, e non poco, e la sua onestà intellettuale lo aveva portato a definirla come una grande donna, forse anche degna di essere ricordata come una dei giusti che avevano salvato vite umane, quelle della sua famiglia ma chissà, forse anche altre.

Tempra morale e chiarezza di giudizio

Se c’è una morale da trarre da questa storia vera e per tanti versi paradossale è quella che, in un periodo come quello che viviamo, caratterizzato dal ritorno dei furori ideologici del Novecento e dominato dalla convinzione della superiorità etica del proprio pensiero e dalla volontà di inseguire e colpevolizzare sempre la dimensione negativa dell’altro da sé (per poi bollarlo sulla base di pregiudizi fino a perseguitarlo per le sue idee) il libro, questa storia ma soprattutto la tempra morale dei personaggi che l’attraversano, consente di restituirci un’idea di pacatezza di giudizio aldilà degli odii e delle passioni, aldilà anche dei propri interessi personali.

Lajos, Maria ed i loro figli avrebbero avuto tutte le ragioni del mondo per odiare attraverso la figura della sorella, tutto ciò che quella figura e quel cognome rappresentavano, perché la loro vita era stata distrutta dalle leggi razziali in poi, che non avevano permesso più a Lajos di lavorare e gli avevano negato una cittadinanza italiana ottenuta con un impegno costante nel lavoro e nella famiglia.

Avrebbero avuto tutti i motivi per odiare, semplicemente per odiare, e non invece di cercare di comprendere l’atteggiamento di Donna Edvige Mussolini.

Una diversa chiave di lettura aveva consentito ad un carattere mite, pacato e soprattutto razionale di elaborare un giudizio al di fuori di qualunque prospettiva di odio e questa crediamo che sia una lezione importante da trarre in un momento in cui l’odio prende il posto della ragione e rinfocola deliri di distruzione e di ira ideologica. Sarebbe in realtà necessario esattamente il contrario e sono anche questi gli esempi che dobbiamo sforzarci di trovare nella letteratura, sono questi gli esempi che il dibattito pubblico dovrebbe cercare di trarre dalla lettura anche di un romanzo.

Un bel libro davvero, quindi, da leggere e da far leggere, perché educa all’amore ed al rispetto.

Sinceramente non è poco.

Adriano Minardi Ruspi

 

 

 

Cristina Petit, Alberto Szegö
A casa di Donna Mussolini
Solferino, pp. 448

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