CRISI BANCARIE

Non errori di funzionamento,
ma inquietanti vizi costitutivi

Con le nuove crisi bancarie torna lo spettro del 2008

 

Torna come nel 2008 lo spettro delle crisi bancarie. Ricostruzioni giornalistiche? Quante ne vuoi. Per elencare che cosa è andato storto nella gestione di una banca relativamente piccola come la Silicon Valley Bank, nei lontani Stati Uniti, e che cosa altro ha messo in crisi, nella vicina Svizzera, un colosso del settore creditizio come il Credit Suisse. E già su questo aggettivo, «creditizio», bisognerebbe fermarsi a riflettere: ma lo faremo più avanti.

Con le nuove crisi bancarie torna lo spettro del 2008: Credit SuisseRimaniamo sui resoconti pubblicati in questi giorni. Sui toni che quasi sempre non vanno al di là di un rammarico a scartamento ridotto. E sulle analisi che si fermano alle dinamiche in atto. Omettendo, salvo rare eccezioni, di risalire alle cause che hanno innescato i tracolli già avvenuti e gli altri che si annunciano come incombenti.

O meglio: tali cause vengono magari enumerate, ma senza mai arrivare a definirle per quello che sono. Non già dei semplici errori di funzionamento, agevolati da talune sviste normative, bensì dei vizi costitutivi.

Un meccanismo che si inceppa?

La versione di gran lunga prevalente è di segno opposto: ogni tanto, ohibò, il meccanismo si inceppa, ma ciò non vuol dire che lo si debba fermare, ripensandone a fondo i metodi e gli obiettivi. Tutt’al più, suvvia, si apporti qualche correttivo che ne mantenga le performance riducendo, se possibile, i rischi di andare a gambe all’aria.

Il 14 marzo scorso, ad esempio, sul Corriere della Sera Francesco Giavazzi (il «solito» Francesco Giavazzi) firma un articolo/editoriale che si intitola «Una scossa, tre lezioni» e ci spiega che la terza lezione è la seguente: «la volatilità è una caratteristica dei mercati finanziari. Questi vanno sorvegliati, ma tentare di cancellarne la volatilità sarebbe un errore perché significherebbe porsi l’obiettivo di azzerare il rischio che è un aspetto essenziale dell’innovazione».

Il vecchio laissez faire del Settecento, in pratica. Chi campa campa, chi crepa crepa. E pazienza se i vantaggi sono dei finanzieri senza scrupoli mentre il prezzo dei loro errori lo paga qualcun altro.

Giavazzi non è Tremonti. Giavazzi è la regola, Tremonti l’eccezione. Giavazzi celebra il sistema, Tremonti lo contesta.

«La crisi del 2008 – afferma l’ex ministro dell’Economia in un’intervista apparsa ieri sul quotidiano La Stampa – non è mai finita. Siamo passati dall’austerity alla liquidity. Con il risultato che la massa monetaria non si contabilizza più in miliardi, ma in trilioni e vale tre volte la ricchezza economica globale. Oggi la situazione è più grave di 15 anni fa».

Sistema sì. Creditizio non proprio

Lo avevamo anticipato. Bisogna fermarsi a riflettere su questo aggettivo che viene ripetuto in modo automatico, o pappagallesco, e fuorviante.

Bisogna chiedersi quanto il termine «creditizio» sia ancora corrispondente alla vera natura degli istituti ai quali viene attribuito in blocco. E quanto, invece, sia ormai ridotto a un’etichetta di routine che nasconde – che continua a nascondere – lo spostamento dell’asse portante delle loro attività verso gli azzardi in campo finanziario.

C’è una differenza enorme, infatti, tra prestare denaro alle imprese e ai cittadini, allo scopo di aiutarli a crescere e a consolidarsi, e inondare di capitali gli operatori/scommettitori delle Borse e affini.

Nel primo caso si concorre a irrobustire la società nel suo insieme, sostenendo il circolo tendenzialmente virtuoso che collega la produzione di beni e servizi alla distribuzione del reddito attraverso il lavoro e, di conseguenza, al soddisfacimento di bisogni reali per mezzo degli acquisti.

Nel secondo, al contrario, si alimenta sempre di più, sino a degenerare in una bulimia irreversibile, un circuito frenetico di operazioni artificiose. Di cui i cosiddetti «derivati» sono forse l’esempio più smaccato, ma di sicuro non l’unico. E certamente non l’ultimo.

Le ripetute bolle speculative

Una lotta senza esclusione di colpi, e di colpi bassi, che porta di continuo al formarsi delle famigerate e citatissime bolle speculative. Come anche, e forse soprattutto, ai tanti altri fattori di squilibrio e di instabilità che vengono creati appositamente per lucrare sulle oscillazioni dei listini.

Distorsioni per nulla accidentali delle quali non si parla a sufficienza. E di cui, vuoi per assuefazione passiva, vuoi per consapevole opportunismo, ci si guarda bene dal cogliere, dal sottolineare, dal denunciare, il vizio d’origine: questi processi, spasmodici e sempre più posticci, non sono affatto nell’interesse generale delle società.

Ovvero dei popoli. Ovvero di noi cittadini qualsiasi che aspiriamo a un benessere ragionevole e a un quadro socioeconomico sano e forte, in cui poter riversare i nostri sforzi e confidare che, così facendo, realizzeremo le nostre aspettative.

No, non siamo e non vogliamo essere «i lupi di Wall Street».

Ma non siamo nemmeno disposti a rimanere le pecorelle portate al macello da una finanza dissennata e famelica, che i media non attaccano come dovrebbero. E che la massima parte della politica ha rinunciato a combattere.

Gerardo Valentini

Lascia un commento