FAST FASHION

La moda ultraveloce
che danneggia l’ambiente

Il lato oscuro del Fast Fashion: la discarica discarica di abiti usati nel deserto di Atacama in Cile

 

Un tempo si parlava di più del cambio di stagione, cosa tenere cosa dare in parrocchia. Poi da un lato la fine delle mezze stagioni, dall’altro l’arrivo della moda usa e getta, e forse anche arredamenti più leggeri, hanno reso il passaggio quasi indolore, a volte assente. Il risvolto del Fast Fashion ci dice che il mondo fuori è diventato un’enorme discarica anche tessile.

Il lato oscuro del Fast Fashion: la discarica discarica di abiti usati nel deserto di Atacama in Cile è ormai visibile dal satelliteUno dei simboli della fast fashion è la discarica di abiti usati nel deserto di Atacama, in Cile, una gigantesca distesa di rifiuti tessili diventata talmente grande nel tempo da essere visibile dallo spazio.

Così come l’altro mostro ambientale, il Great Pacific Garbage Patch, un enorme accumulo di spazzatura galleggiante, composto per lo più di plastica, e situato nell’Oceano Pacifico. Un’isola grande quasi quanto la Spagna.

La velocità con cui l’industria del fast fashion produce indumenti significa che sempre più vestiti vengono comprati e gettati via altrettanto velocemente, creando enormi quantità di rifiuti.

Un incentivo all’acquisto compulsivo

Il fast fashion è la moda ultraveloce che negli ultimi decenni ha rivoluzionato il modo in cui ci vestiamo. Capi a prezzi stracciati, collezioni che si rinnovano a una velocità impressionante e un modello di business basato sull’acquisto compulsivo: nel cuore del fast fashion c’è un ciclo incessante di produzione e consumo che spinge le aziende di moda a produrre abiti a ritmi vertiginosi e i consumatori a credere di dover acquistare sempre di più per rimanere al passo con le tendenze.

Basti pensare che, rispetto al 2000, nel 2014 si sono acquistati a livello globale il 60% di abiti in più e che la durata della vita degli abiti si è dimezzata. D’altro canto le aziende della moda, che nel 2000 offrivano due collezioni l’anno, nel 2011 ne offrivano ben cinque, con picchi di ventiquattro l’anno per un’azienda come Zara e dodici per H&M.

I vestiti come articoli «usa e getta»

Il fast fashion ha trasformato i vestiti in articoli usa e getta, generando un grave problema nell’uso smodato di materie prime e nella produzione di rifiuti.

L’aumento della produzione, possibile grazie alle pratiche di outsourcing, mira a rendere disponibile nel corso dell’anno una buona varietà di taglie e modelli per far fronte alla richiesta. In questo modo, a fine stagione, restano sugli scaffali grandi quantità di invenduto che vanno smaltite con ingente danno ambientale e spreco di risorse. Si stima che ogni anno ben l’85% dei tessili prodotti finisca in discarica.

A fronte di questi dati è evidente come il Fast Fashion sia responsabile di ben il 10% delle emissioni serra sul pianeta, per non contare lo sfruttamento e l’inquinamento delle acque, altro grande problema spesso sottostimato. Si stima che il 20% dell’inquinamento delle acque derivi dai processi di tintura e lavorazione dei tessuti.

Che si tratti di produzione di tessuti naturali o di tessuti in fibre sintetiche, l’impatto ambientale è decisamente alto.

Un pesante impatto sull’ambiente

La coltivazione di cotone, infatti, è responsabile dell’utilizzo del 16% di tutti i pesticidi usati in agricoltura a livello globale. Per non parlare dell’acqua che richiede il ciclo di vita di un capo in cotone dalla pianta al negozio. Secondo il Water Footprint Report, infatti, il cotone è, tra le fibre tessili, quella che consuma più acqua.

Per quanto riguarda i capi sintetici, occorre distinguere tra semi sintetici e sintetici.

Le fibre semi sintetiche sono quelle che derivano da fibre naturali trattate con processi chimici, come il rayon o la viscosa. L’utilizzo nel processo di trasformazione di sostanze chimiche dannose come l’acido solforico, e il grande processo di disboscamento legato alla loro produzione, le rendono molto impattanti sull’ambiente.

Le fibre sintetiche come il nylon e il poliestere, d’altro canto, sono derivate dal petrolio e hanno un altissimo impatto ambientale dall’estrazione del greggio fino allo smaltimento dei capi a fine vita. I costi energetici, lo sfruttamento dell’acqua, e le problematiche legate allo smaltimento sono solo la parte visibile dell’inquinamento prodotto da questo tipo di fibre. Il lavaggio dei tessuti sintetici è infatti la maggiore causa di inquinamento da microplastiche che si stima costituisca il 31% dell’inquinamento da plastica degli oceani.

La «moda sostenibile» ancora una chimera

Ma l’industria del fast fashion sta comunicando una narrazione alternativa basata sulla cosiddetta «moda sostenibile».

Dalla sua istituzione, il Green Consumption Pledge ha visto l’adesione di undici aziende pronte a fare da apripista sulle questioni legate alla sostenibilità. Tra le società aderenti, ben due hanno a che fare con l’abbigliamento: H&M e Decathlon.

Con il raddoppio della produzione negli ultimi 20 anni a fronte di un aumento della popolazione di solo il 28%, l’industria della moda va evidentemente ripensata in ottica circolare e sostenibile.

Da quanto appena detto si evince che l’impatto ambientale dell’industria della moda, in particolare di quella del fast fashion, sia estremamente grande, e questo a prescindere dal tipo di fibre utilizzate. Danni di diverso tipo derivano dai differenti tessuti ma il problema maggiore viene sicuramente dalla sovraproduzione con i conseguenti costi economici ed ambientali per lo smaltimento.

Una industria che produce ben più del necessario in un’ottica ormai usa e getta e che fa affidamento sullo smaltimento a fine vita non è e non può essere ritenuta sostenibile.

Le azioni da intraprendere

Le azioni da intraprendere per cambiare questa situazione sono molte, a partire da nuove strategie mirate ad una riduzione della produzione e incentrate sull’intelligenza artificiale e su modelli predittivi delle richieste.

Ridurre la produzione senza creare carenze di stock, giungendo ad una produzione più consapevole e attenta, potrebbe diminuire alla base l’impatto ambientale.

Per quanto riguarda il discorso del fine vita dei capi di abbigliamento, la questione è complessa e merita di essere trattata adeguatamente.

Incidere sulle abitudini dei consumatori e sulla loro ottica usa e getta prolungando il tempo di vita degli abiti è sicuramente una via da intraprendere. Occorre anche agire incrementando pratiche virtuose di riuso e riciclo.

Maria Facendola

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