GLI USA VS FRANCESCA ALBANESE

A colpi di sanzioni
per giustificare Israele

Denunciare il genocidio che Israele sta compiendo a Gaza espone gli organismi internazionali alle ritorsioni dell’amministrazione statunitense. Il caso delle sanzioni imposte all’italiana Francesca Albanese.

 

Nella difesa a tutto campo del genocidio che Israele sta compiendo a Gaza, dopo le sanzioni contro la Corte Penale Internazionale, gli Stati Uniti sono arrivati a colpire lo Special Rapporteur, uno specifico organismo diretto dalla italiana Francesca Albanese.

La direttrice dello Special Rapporteur dell'Onu Francesca AlbaneseNon si era mai vista una cosa del genere, che avviene a poca distanza dal mancato rinnovo del visto a Whittall, capo dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari nei territori occupati e, in particolare, nella Striscia di Gaza dove, ad aprile aveva identificato una fossa comune di operatori sanitari, tra cui membri della Mezzaluna Rossa palestinese e dell’Agenzia Onu per i profughi palestinesi.

La notizia delle sanzioni nei confronti di Francesca Albanese è arrivata con un post del Segretario di Stato Usa: «Oggi impongo sanzioni alla Relatrice Speciale del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, Francesca Albanese, per i suoi illegittimi e vergognosi tentativi di indurre la Corte Penale Internazionale ad agire contro funzionari, aziende e dirigenti statunitensi e israeliani.

La campagna di guerra politica ed economica di Albanese contro gli Stati Uniti e Israele non sarà più tollerata. Sosterremo sempre il diritto all’autodifesa dei nostri partner.

Gli Stati Uniti continueranno a intraprendere qualsiasi azione riterranno necessaria per rispondere alle azioni legali e proteggere la nostra sovranità e quella dei nostri alleati».

L’uomo colpito con un drone

Parlare di capitalismo della morte sembra evocare uno dei detti di Papa Francesco, ma il business della guerra, quello che viene analizzato nell’ultimo report proprio dall’Albanese, da cui le sanzioni, e che ha fatto infuriare il Governo Usa, è molto più ostentato di quanto sembra.

Nei social, il produttore di armi israeliano Rafael Advanced Defense Systems, ha postato un video dove si vede un missile colpire un uomo nei dintorni di Gaza (il luogo è stato geolocalizzato da altri utenti). Vedere la superiorità sul campo di battaglia è il massimo della propaganda bellica e Israele è di gran lunga il primo paese al mondo per valore di export di armi pro capite.

Si capisce quindi la posta in gioco. Per inciso, sui social il video è stato rimosso.

Le inserzioni a pagamento sui Social Media

Le sanzioni sono quindi il culmine di una guerra sporca contro le istituzioni internazionali, le stesse deputate a spegnere i conflitti. Il riferimento all’ostilità contro l’economia, manifesta come ci sia un lucro e degli interessi economici alla base del perpetuarsi del conflitto, anzi, assedio, a Gaza.

Le pietre di inciampo rispetto a questo business vanno fatte fuori e si rivendica persino l’utilizzo del capitalismo di guerra, ossia delle sanzioni.

Per questo l’annuncio di non voler rinnovare l’incarico dei membri della commissione dell’Onu, che valuta i diritti umani nei territori occupati, è stato salutato come l’effetto della politica muscolare Usa contro la Albanese. Il risultato rivendicato sarebbe appunto il terrore inculcato ai referenti delle istituzioni internazionali che avrebbero osato fare report individuando condotte genocidiarie da parte di Israele.

Il non detto è: Israele (come gli Stati Uniti) deve stare sopra gli standard del diritto internazionale, se provate a fare report subirete qualcosa.

Un po’ quello che sarebbe arrivato alle orecchie di Karim Khan riguardo il perseguire le accuse di crimini ad altri esponenti del governo israeliano come Ben Gvir.

Insomma, è finita l’era del soft power americano che cercava di proiettare la propria influenza negli organismi internazionali, da dietro le quinte.

La politica muscolare di Trump ora non risparmia nemmeno i cosiddetti alleati, in una maniera anche imbarazzante, finendo per mettere in discussione anche il prestigio sino ad ora accumulato.

Questo mette a rischio la credibilità degli Stati Uniti come nazione ospitante dell’Onu e della sua Assemblea Generale, come dice Josh Paul, ex direttore di un agenzia del dipartimento di Stato Usa che si è dimesso proprio in polemica con l’invio di armi da parte di Biden a Israele.

Da dove deriva questa decisione così perniciosa per la reputazione americana?

In un articolo sull’utilizzo strumentale dell’accusa di antisemitismo, era stata evidenziata questa campagna attuata da una Ong, Un Watch (ed è un nome che sarà ricorrente), di discredito della Albanese.

da questi veniva inviata una lettera ai Ministri di Stati Uniti, Germania, Francia, Inghilterra e Canada, che era mirata a impedire il rinnovo triennale dell’incarico.

Questa forma di lobbing non ha sortito l’effetto sperato dalla Ong, e non si crede che le sanzioni porteranno all’abbandono dell’incarico da parte dell’Albanese.

Per giustificare tanto accanimento, tuttavia, il Governo Israeliano, di cui Un Watch è il chiaro prolungamento, ha pagato delle inserzioni che riprendono le accuse della stessa Ong, rilanciate dai megafoni locali.

La tecnica è quella di far passare le stesse accuse come qualcosa di nuovo, inedito, che si aggiunge alle precedenti.

In realtà, si tratta di frammenti di discorsi decontestualizzati con cui cercare di bollare di antisemitismo.

Oltre a ciò, altre accuse che fanno leva sulla non conoscenza delle pratiche delle Istituzioni delle Nazioni Unite. Infatti, in caso di trasferta per attività organizzate anche da organizzazioni private (nel caso, Palestinian Christians in Australia) si possono ricevere da queste indennità di alloggio, viaggio e soggiorno (Rule 1.2 (w),  Regulations and Rules of the United Nations 2028).

La situazione non è comune. Un investimento di tale portata, e in chiaro, sulla piattaforma online più utilizzata è volto certamente a giustificare un clima di sovraesposizione dei singoli che si ritengono attori della narrazione istituzionale.

E infatti, oltre all’Albanese, nel mirino è finito anche il compagno e i suoi post.

La libertà di opinione

Quello che sorprende è come non venga in mente al Governo americano, quello che per intenderci ci dava lezioni di democrazia in Germania per gli attacchi alla libertà di espressione o ai candidati scomodi, che non si può inibire e reprimere la critica, anche dura, ad una politica.

In fondo, è chiaro che tutto ruota attorno all’accusa di genocidio, termine che si vuole epurare dal dibattito, pena lo stigma dell’antisemita.

Facendo così, però, si comprende come, tra le priorità del governo israeliano, non ci sia il rispetto del diritto umanitario, ma la percezione dell’opinione pubblica, come se, cambiando quella, gli atti possano essere giudicati diversamente.

E viceversa, magari vogliono far ritenere che le accuse siano frutto di distorsioni, propaganda, che si insinua fino ai vertici delle istituzioni.

Si approfitta, in realtà, del populismo mediatico, quello per cui il rapporto sull’economia del genocidio dell’Albanese vale quello di un account su X.

Questo non vuol dire che tutti i rilievi mossi verso l’Albanese e il suo compagno siano da scartare a priori. Solamente che questi sono vecchi rapporti, mai considerati seriamente dagli organismi.

In realtà, ad esempio, quello sul marito dell’Albanese che capiterà di ripescare, riguarda un incarico da consulente economico del Ministero economico della Palestina a Ramallah, del 2011, che ha però portato avanti nell’ambito del Programma di sviluppo delle Nazioni Unite mentre il suo rapporto sull’economia in Palestina è stato fatto per la Banca mondiale, dove ha lavorato dall’anno dopo.

Una circostanza evidenziata dalla stessa Albanese che ha risposto così alle critiche, e molto credibile. Quindi, in realtà, non potrebbe esserci alcun conflitto con il ruolo dell’Albanese.

Non avvocata, ma lawyer

Per far capire la pretestuosità delle accuse alla special rapporteur per i territori occupati, uno degli elementi addotti contro l’Albanese, e più utilizzati, è la mancanza del titolo di avvocato.

Un watch (la fonte di tutte le accuse), stigmatizza la sua qualifica di international lawyer, prendendola anche come esempio del suo disprezzo per i fatti, con queste parole: «Francesca Albanese ha ora ammesso di non aver mai sostenuto l’esame di abilitazione all’esercizio della professione forense. Eppure, per anni si è definita pubblicamente ‘avvocato internazionale’, un titolo che implica l’abilitazione e l’autorità per esercitare la professione».

Ebbene, chi ha un po’ di pratica con la professione forense, sa che non sarebbe bastato l’esame da avvocato in Italia, e l’iscrizione all’albo nazionale, per potersi definire avvocato internazionale.

Pertanto il fatto che lei non abbia sostenuto l’esame in Italia non ha nulla a che fare con la qualifica di international lawyer, che, infatti, è riferito ad un esperto giurista di diritto internazionale (quale ella è).

Tanto basta per rendere degne di nota le sue opinioni riguardo al diritto di difesa della potenza occupante contro, peraltro, un attore non statale, che è il vero nodo giuridico che, accuratamente individuato, in realtà, delegittima ancor di più, la condotta bellica israeliana.

A tale riguardo c’è chi crede, al contrario, che ad Israele non si applichi il vaglio la legittima difesa, ma perchè proprio non avrebbe alcun obbligo verso Hamas, e neanche verso Gaza in quanto entità non statale. Con ciò si svincolerebbe Israele da qualsiasi rispetto del diritto internazionale. Un’ipotesi assurda.

Invece, proprio la circostanza che quel territorio è considerato occupato, pone degli obblighi a carico Israele: forniture di beni essenziali, cooperazione con le organizzazioni umanitarie, garantire la libertà di movimento e comunicazioni, protezione della popolazione civile, tutti obblighi disattesi.

E’ vero che Israele, ad esempio, sul blocco dei viveri, invoca l’art. 23 della IV Convenzione di Ginevra, ma Gaza, è bene specificarlo, dipende da sempre dagli invii umanitari esterni, e poi, difficilmente si può pensare «che il nemico possa trarre evidente vantaggio per i suoi sforzi militari» dal latte per neonati in polvere. Israele, infine, ha persino espulso le potenze internazionali protettrici.

Quindi, l’accanimento verso la popolazione civile, in realtà una sempre più esplicita punizione collettiva, non può che essere giustificato dal ricercare un (presunto) indebolimento al sostegno popolare ad Hamas, individuandolo come responsabile automatico della carneficina compiuta con i propri mezzi.

Si deve dire che certa retorica cerca di dare forza a questa impostazione, portando, non a caso, gli esempi di Hiroshima o Dresda, ossia di sofferenze, volute e calcolate, verso la popolazione, tali da piegare la convinzione bellica del nemico.

Questo però al di là delle ragioni della lotta, se portata avanti come resistenza o come conquista.

Ecco da dove viene il disprezzo per le istituzioni internazionali e per quelle persone che le incarnano, che, al contrario, credono nello sviluppo del diritto umanitario che dovrebbe aver superato certe impostazioni.

Per questo bisogna sostenere Francesca Albanese.

Armando Mantuano

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