SUICIDIO ASSISTITO

La lettera testamento
di Laura Santi

Laura Santi con Marco Cappato, paladino del suicidio assistito

 

La giornalista perugina Laura Santi, 50 anni, ex consigliera dell’Associazione Luca Coscioni, atea sbattezzata, si è tolta la vita, il 21 luglio nella sua abitazione di Perugia, assistita dai suoi cari e da un’équipe sanitaria attivata su base volontaria.

Laura SantiIl gesto compiuto proprio in limine al dibattito sulla legge sul suicidio assistito, vuol essere l’ultimo messaggio di un malato militante in opposizione al provvedimento in esame al parlamento, considerato troppo restrittivo.

Bisogna considerare quindi il peso delle parole di questi «testimoni» nelle stesse decisioni della Consulta, che, non a caso, ha formato l’iter giudizial-legislativo proprio attraverso tappe scandite da casi individuali, da Eluana a Dj Fabo.

Contro l’onda emotiva che inibisce il pensiero critico, proprio il contrario della libertà, per un malinteso rispetto di un’autodeterminazione che non è, e non potrà mai essere, neutra, è utile analizzare la lettera di saluto (estremo) che ci ha lasciato. E’ stata infatti resa pubblica dall’Associazione Luca Coscioni a cui è andato anche il tributo finale con l’appello a sostenere attivamente le loro iniziative.

Il testo integrale della lettera

Pensiamo sia utile riportare il testo integrale della lettera di Laura Santi alla quale faremo seguire delle brevi note: «Quando leggerete queste righe io non ci sarò più, perché avrò deciso di smettere di soffrire.

Nonostante la mia scelta fosse ormai nota a tutti, questo mio gesto finale arriva nel silenzio e darà disappunto e dolore. Molti saranno dispiaciuti, altri soffriranno per non avermi potuto dare un ultimo saluto, un ultimo abbraccio. Vi chiedo di comprendere il perché di questo silenzio. Anche nella certezza della mia decisione si tratta del gesto più totale e definitivo che un essere umano possa compiere, ci vogliono sangue freddo e nervi d’acciaio. Come avrei potuto viverlo serenamente aggiungendo lutto a lutto anticipato, dolore al dolore, resistenze, lacrime reazioni e attaccamento? Vi chiedo anche uno sforzo aggiuntivo di comprensione.

Cercate di immaginare quale strazio di dolore mi ha portato a questo gesto, giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto. Fate lo sforzo di capire che dietro una foto carina sui social, dietro il bel sorriso che potevate vedere giusto un’ora strappato alla routine e ai sintomi in una occasione pubblica, sempre più rara, dietro c’era lo sfondo di una quotidianità dolorosa, spoglia, feroce e in peggioramento continuo. Una sofferenza in crescita giorno dopo giorno. La situazione è stata in evoluzione per anni, poi in tempo reale gli ultimi mesi e settimane. Mio marito Stefano e le mie assistenti l’hanno vista, loro e solo loro e anzi, neppure loro, per forza di cose, potevano essere grado di capire cosa sentissi nel mio corpo, quanto male sentissi, quanta fatica sempre più totalizzante. Non riuscire più a compiere il minimo gesto. Non più godere della vita, non più godere delle relazioni sociali. Che è quello che fa per me una vita dignitosa.

Ho avuto molto tempo per elaborare e maturare questa decisione, ho avuto molto tempo per capire quando era veramente il momento. Avevo quel famoso parapetto, quello di cui avete letto spesso, da cui affacciarmi. Ho avuto molto tempo anche per cambiare idea e rimandare la decisione. Mi sono consentita, in una situazione che ancora reggeva, di assaporare gli ultimi scampoli di vita e di bellezza. Di salutare ogni angolo, ogni luogo, ogni volto, ogni persona ogni situazione ogni cielo ogni colore, ogni minuscola passeggiata fuori. Vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo, si dice. Si dice anche che sia impossibile, nei fatti. Ebbene, io l’ho quasi realizzato. Me ne vado avendo assaporato gli ultimi bocconi di vita in maniera forte e consapevole. Intendetemi: io penso che qualsiasi vita resti degna di essere vissuta anche nelle condizioni più estreme. Ma siamo noi e solo noi a dover scegliere.

Alle persone che resteranno senza un saluto oltre che le mie scuse va un abbraccio fortissimo. È impossibile enumerare tutti i volti che hanno riempito la mia vita. Fate conto che io vi stia salutando e abbracciando. La mia vita è stata piena anche grazie a voi.

La mia famiglia d’origine: papà Renato, mamma Gabriella, mia sorella Elena, mio nipote Matteo; tutti i parenti; Laura, Chiara e le amiche storiche di una vita, tutti gli amici, i colleghi e i conoscenti, i compagni di malattia, i compagni di attivismo, tutti coloro con cui ho condiviso un pezzo di strada. La mia amata Perugia. I miei medici, le mie palliativiste, i miei fisioterapisti, un grazie particolare a Daniela per avermi dato negli anni gli strumenti per combattere. Le mie assistenti, la mia seconda famiglia in quest’ultimo tratto. La politica quella buona, Fabio e Vittoria, i giornalisti amici, come le due Francesca; chi mi ha aiutato; il vescovo Ivan, un amico speciale col quale mi sono intrattenuta in più di una chiacchierata sulla vita e la morte.

Ho potuto vincere la mia battaglia solo grazie agli amici dell’Associazione Luca Coscioni, seguiteli e seguite i diritti e le libertà individuali, mai così messi a dura prova come oggi. Sul fine vita sento uno sproloquio senza fine, l’ingerenza cronica del Vaticano, l’incompetenza della politica. Il disegno di legge che sta portando avanti la maggioranza è un colpo di mano che annullerebbe tutti i diritti. Pretendete invece una buona legge, che rispetti i malati e i loro bisogni. Esercitate il vostro spirito critico, fate pressione, organizzatevi e non restate a guardare, ma attivatevi, perché potrebbe un giorno riguardare anche voi o i vostri cari.

Ricordatemi come una donna che ha amato la vita».

Cinque note a margine

1. i cari, parenti e amici, la vera ricchezza dell’esistenza, sono stati volutamente trascurati perché per una decisione in cui serve sovrano distacco, direi stoicamente strutturato nel senso proprio del termine, sentire l’attaccamento alla propria esistenza da parte di altri avrebbe compromesso la serenità.

2. l’incomunicabilità della propria condizione mette la sofferenza in un grado di intimità impartecipabile, di cui il dolore fisico, come la progressiva disabilità, rappresentano solo l’epifenomeno. C’è stata una voluta chiusura di questa dimensione al mondo esterno, anche con la presunzione che nessuno potesse capire. Ma homo sum humani nihil a me alienum puto. Questa dimensione interiore, che magari per qualcuno coincide con un anima (e anch’essa può ammalarsi), non è comune a tutti gli uomini? E se cambiano solo le circostanze e l’arricchimento reciproco, come per ogni esperienza, perché confinarla nella solitudine. Alla fine è questa percezione il termine di paragone che porta ad una determinata scelta. Ma, come società, però, non dovremmo valutare la (scelta della) solitudine, anche esistenziale e profonda, di ognuno, come una sconfitta?

3. Vivere ogni giorno come fosse l’ultimo è il segno di una vita piena. Si intuisce così che la vita non passa dalla quantità di tempo e dalle condizioni dell’esistenza, ma dal realizzare legami attraverso ciò che ci circonda, dal coltivare lo stupore per tutto quanto il dono per me. Qui c’è una forte contraddizione con il paragrafo precedente. Non a caso le frasi che li concludono si elidono a vicenda.

4. Le scuse, al di là di quello che si può pensare, sono per le conseguenze del gesto sulle persone care. Il saluto, infatti, è proprio la lettera. Ma allora non è neutra l’autodeterminazione a morire, ci sono conseguenze sociali, oltre che antropologiche (il riferimento è alla dignità della vita).

5. È interessante il confronto tra i due ultimi paragrafi: da un lato le persone significative, dall’altro i militanti che l’hanno aiutata nella battaglia (contro chi e cosa, forse contro il dubbio?)

Il contrario esatto della libertà

La lettera, spesso citata a bocconi, magari per amplificare un’attività di lobbing, esemplifica che non basta l’autodeterminazione a individuare un’azione come giusta. Inoltre, la libertà è un’altra cosa e mi spiego meglio.

Fissare la determinazione del suicidio fatta in un momento della propria vita è proprio il contrario esatto della libertà. Promuovere una decisione, anche avvenuta consapevolmente, ritenendo che bisogna aiutare a lottare per raggiungere il fine dichiarato, è scambiare la libertà con il manifesto della stessa.

La lettera della giornalista, ahimè morta, riprende proprio questa lotta interiore.

Lei poi dice, «se capitasse ai vostri cari». Ma il condizionamento giuridico della gabbia della decisione in un certo tempo, non condiziona proprio tutti i cari di quella persona?

Alcuni elementi fanno pensare che sia proprio così. Non solo per un integerrimo dovere di astensione che si amplifica fino a far quasi scomparire una relazione (con diversi punti di vista), ma pure perché non si colgono e non si possono cogliere quei segnali che magari sono di vera libertà, e li si scambiano come dubbi, incertezze, su un cammino ormai percepito (anche se non dichiarato) predeterminato, e figurarsi c’è pure lo «psicopompo» militante ormai ancella di ogni decisione legislativa.

Non vorrei rievocare gli ultimi istanti così come raccontati sui media, perché si è ancora nella fase di elaborazione di un lutto, ma la parola solitudine si fa eco.

Armando Mantuano

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