Dopo l’apertura delle urne delle Elezioni Europee, tutto è in movimento nel Vecchio Continente. È tutto in trasformazione. Come è inevitabile, d’altronde, in un mondo a sua volta investito da cambiamenti di enorme portata. Che non è affatto iperbolico definire «epocali». E su cui torneremo più avanti, in asse con i primi ragionamenti sull’avvenire dell’Unione Europea.
Il voto europeo in Italia
Cominciamo dall’Italia, però. Il messaggio che arriva dai cittadini che hanno votato è innanzitutto uno: c’è un grande bisogno di chiarezza e di identificazione. L’ambiguità ha stancato (finalmente!) e i personaggi ondivaghi alla Renzi e Calenda sono destinati alla penombra, per non dire all’oscuramento totale.
Quanto a Giuseppe Conte e al M5S, ovvero a ciò che resta del travolgente MoVimento creato quasi venti anni fa da Gianroberto Casaleggio e Beppe Grillo, il discorso sarebbe più complesso. Ma ha in comune un aspetto fondamentale: se non hai un’identità forte, riducendoti invece a una copietta sbiadita di quello che c’è già, gli elettori si allontanano.
Traduzione specifica: se sei solo una variante del Pd, e più in particolare del Partito Democratico riverniciato in tutta fretta da Miss Armocromista 2023-24, che cosa ti appoggiamo a fare?
Due schieramenti, due leader
Giorgia Meloni di qua. Elly Schlein di là. Entrambe premiate, e in modo massiccio, dall’esito del voto. Al punto che la stessa Meloni ha parlato di un ritorno del bipolarismo, sottintendendo che sia un elemento positivo.
Sui due versanti contrapposti, però, rimane una differenza sostanziale.
Mentre nella coalizione di governo i rapporti tra gli alleati sono saldi, e rodati dalle molte sfide affrontate negli ultimi due anni, dalle parti dell’opposizione è ancora tutto da definire. Archiviato il termine infausto del «campo largo», l’ambizione è la stessa: trasformare i pezzi sparsi in un blocco compatto.
A tavolino è facilissimo: ti metti a sommare le rispettive percentuali, come un bimbetto delle elementari che risolve il problema di turno, e ottieni rapidamente il risultato che ti serve.
Nella realtà concreta è tutta un’altra storia: chi lo fa il passo indietro? Il piccolo che in quanto piccolo si deve adeguare, o il grosso che in quanto grosso aspira a comandare?
La politica non coincide con l’aritmetica
Risaputo. Ma troppo spesso ignorato. La politica non coincide con l’aritmetica. E il «bottino» dei voti raccolti non esaurisce i problemi della rappresentanza, nemmeno se è, o appare, un successo oggettivo, cospicuo e gratificante.
A proposito: l’astensionismo ha superato il 50% per cento. E quando un numero così alto di cittadini si chiama fuori dalle scelte collettive, minimizzare è vietato. Sorvolare è ancora peggio.
Una disaffezione tanto diffusa e ricorrente non è più un dato spiacevole ma in fin dei conti neutro e occasionale. È il segno, è la dimostrazione, di una perdita di fiducia nella democrazia, ovvero nella mitologica sovranità che a norma della Costituzione appartiene al popolo.
Quella che vacilla è la legittimazione dell’intero sistema istituzionale. E soltanto gli stupidi, o i cinici, possono ostinarsi a fare finta di nulla.
Una Ue da reinventare
La domanda del momento riecheggia ovunque. Ma è anch’essa ottusa. O quantomeno parziale.
La domanda del momento, che assorbe l’attenzione della quasi totalità dei commentatori, è se la «nuova» maggioranza che governerà l’Unione Europea sarà all’incirca la stessa che ha prevalso finora.
In altri termini: il sodalizio tra Popolari e Socialisti è destinato a proseguire imperterrito o sono possibili accordi alternativi, che riflettano il rafforzamento delle formazioni di destra?
L’errore di prospettiva è il solito. Concentrarsi sulla gestione del potere all’interno dell’Europa, anziché sul ruolo da avere nel mondo esterno. Ovvero sulle posizioni da assumere nello scacchiere globale. Sulle finalità da perseguire. Sui principi ideali e sui metodi concreti.
La gamma delle questioni è amplissima, ma presuppone il ripensamento dei vecchi schemi.
Il catechismo progressista non regge più
Di fronte a un pianeta che ribolle di spinte al cambiamento, il catechismo progressista dell’immigrazione «umanitaria» e del «politicamente corretto» esasperato (fino ai deliri woke della cosiddetta teoria Gender e della Cancel Culture, che colpevolizza l’intera Storia dell’Occidente e pretende di riscriverla) non è più solo sballato. È suicida.
Quello che viene messo in discussione a livello planetario è il dominio di matrice statunitense. E per molti versi, anzi, lo si è già superato: perché c’è un fronte sempre più ampio che vi si oppone e che si dà obiettivi strategici ramificati e cruciali, a cominciare dall’abbandono del dollaro Usa come valuta di riserva, rinsaldando via via i legami reciproci. Oggi soprattutto economici. In prospettiva anche politici.
Il futuro dell’Europa si gioca su questo stesso terreno. E per ora le uniche forze che non si appiattiscono sul copione abituale sono quelle di destra. I Popolari, perciò, non hanno più scuse: o continuare come al solito, in nome dei vantaggi acquisiti e delle relazioni consolidate e comode, o aprirsi a una rigenerazione profonda.
Il tempo del «ce lo chiede l’Europa» è finito. Quello che comincia, che è già cominciato, è scandito da un assai più perentorio «ce lo grida il mondo».
Gerardo Valentini