PD E DINTORNI

Le pulsioni «staliniste»
della sinistra

La sinistra teme il voto e rispolvera il fascismo. I radical-chic

 

Il babau. Il babau fascista. O neofascista. O se non proprio fascista, beh, insomma, giù di là. Chi? Meloni e Salvini, si intende. Meloni e i suoi di Fratelli d’Italia, più o meno in blocco. Salvini e una parte dei suoi, non stiamo a specificare chi. Quelli della destra, comunque.

La sinistra teme il voto e rispolvera il fascismo. Enrico LettaQuelli della destra che appena dice qualcosa di sgradito ai sedicenti progressisti diventa automaticamente, e senza scampo, l’estrema destra che gioca sporco e trama nell’ombra.

L’estrema destra che si finge rispettosa delle istituzioni – e della stessa Costituzione – laddove invece coltiva bieche e subdole intenzioni di ben altra natura. Tra i remoti fantasmi del Ventennio che fu. E i novelli spauracchi del putinismo che è.

Come se fosse davvero questo, il rischio che l’Italia si ritrova a correre, nel caso sciagurato di un netto successo elettorale del centrodestra alle prossime elezioni del 25 settembre.

Come se realmente fosse possibile, anzi incombente, anzi pressoché sicuro, un cambiamento in chiave autoritaria e antidemocratica del nostro Paese: dalla libera e felice repubblica nata dal referendum del 1946, e proseguita con il suo pasticciato restyling negli anni Novanta dopo il terremoto di Tangentopoli, a un fosco regime semi dittatoriale che conculca in ogni modo le libertà civili. Nel mentre, peraltro, manda in rovina i conti pubblici.

Nel giro del Pd, e dei quotidiani fiancheggiatori a cominciare da Repubblica, l’aria che tira è questa. E non certo da oggi.

Lo spauracchio del Fascismo

Dopo essersi atteggiati a maestri di saggezza e di pacifica convivenza nello spiegarci che in politica esistono gli avversari (anzi, i competitors) e non già i nemici, ecco pronta l’eccezione che conferma la regola.

La destra, quando non si accontenta di starsene nel suo cantuccio e appare in procinto di andare al governo, smette di essere un normale concorrente alle elezioni e si trasforma – aiuto! aiuto! – nel Pericolo Pubblico Numero Uno.

Stiamo esagerando? Ma quando mai.

Nel giugno scorso, in un’intervista a MicroMega, Paolo Berizzi (che, come ci ricorda Wikipedia, è «inviato speciale del quotidiano la Repubblica, dove lavora dal 2000» ed è «conosciuto soprattutto per le sue inchieste sul neofascismo») si sofferma su Giorgia Meloni e tuona come segue: «Un pericolo che è stato sottovalutato per troppo tempo. Ora, proprio nell’anno del centenario della Marcia su Roma, il primo partito italiano ha nel suo simbolo la fiamma tricolore».

Un caso isolato? Macché. Uno dei tanti, dei tantissimi. Uno dei troppi. Dei troppissimi.

Demonizzare il «nemico»

Se si trattasse solo di un accorgimento propagandistico, nell’intento di liquidare a priori e in un sol colpo un antagonista che sta diventando così forte da avere ottime probabilità di arrivare a Palazzo Chigi, il metodo sarebbe altrettanto scorretto ma in qualche modo meno grave.

Capzioso sì, ma se non altro dovuto a una scelta in chiave tattica. Della serie: non ho grandi argomenti da sfoderare a mio vantaggio e quindi mi trincero dietro l’esorcismo a tutto campo.

Qui è ancora peggio, invece. Qui siamo di fronte a qualcosa di più profondo. Di più radicato. Di irreversibile.

In quest’avversione così fervorosa e viscerale da sconfinare nell’odio, c’è il manifestarsi di una condizione interiore imperniata sull’astio. Che è tipica della peggiore sinistra. E che purtroppo si è andata a intrecciare con la spocchia delle oligarchie economiche o comunque di potere.

Privilegi della sinistra a rischio

Della vecchia lotta di classe è rimasto solo, paradossalmente, il livore nei confronti di chi si rifà ad altri principi valoriali. È sopravvissuta la pulsione «stalinista», ma al servizio di un establishment assoggettato agli Usa dei Democrats e alla Commissione Ue dei vari Prodi, Barroso, Juncker e von der Layen.

Vedi, ad esempio, i commenti a senso unico dopo l’uccisione di Darya Dugina in un attentato esplosivo avvenuto in Russia il 20 agosto scorso. Neanche una parola di deprecazione per gli assassini, palesemente nel segno del terrorismo.

Non una briciola di umana pietà per la vittima. Al contrario: un malcelato compiacimento per le possibili conseguenze negative ai danni dell’odiato Putin.

Tutto questo non attiene solo al comportamento, che può essere deplorevole ma suscettibile di correzione.

Qui si tratta di ciò che si è nel fondo del proprio animo. Sprezzanti e ipocriti allo stesso tempo. Fintamente indignati sul piano etico. Autenticamente rabbiosi per il timore di perdere il proprio potere e, con esso, i propri privilegi.

Gerardo Valentini

 

 

 

 

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