MOVIMENTO CINQUE STELLE

Gigino resta
senza cravatta

 

Le dimissioni di Luigi di Maio da capo politico del Movimento Cinque Stelle erano nell’aria da diversi giorni e il 22 gennaio sono infine arrivate. Alle sue precedenti smentite avevano comunque creduto in pochi, tanto che in borsa erano perfino risalite le azioni di Atlantia, la società della famiglia Benetton che gestisce le autostrade. La guida del Movimento come reggente fino agli Stati Generali del 13 maggio (il loro primo congresso) è stata assunta dal quarantasettenne senatore Vito Crimi, in qualità di membro più anziano del comitato di garanzia dei Pentastellati.

Di Maio paga la caduta libera dei consensi dei Cinque Stelle, i quali dopo essere diventati nelle politiche del 4 marzo 2018 il primo partito italiano con il 32,7% dei voti ed essere andato al governo del Paese prima con la Lega di Salvini e poi con il Pd di Zingaretti, hanno intrapreso un’inarrestabile parabola discendente che l’ha fatti scendere al 17% nelle elezioni Europee del 25 maggio 2019 e gli ha fatto collezionare una lunga serie di debacle nelle elezioni regionali che si sono susseguite.

Con la scelta di dimettersi cinque giorni prima delle regionali di Emilia-Romagna e Calabria – nelle quali i sondaggi prevedono un nuovo tracollo dei Pentastellati – l’ex capo politico eviterà così di diventare l’unico capo espiatorio dell’ormai acquisito ridimensionamento della creatura politica di Beppe Grillo.

Pur con i suoi limiti Di Maio non può essere comunque considerato l’unico responsabile di un fallimento derivato da molti fattori: dalla decisione di andare al governo prima con la Lega e poi con il Pd, al mantenimento del medesimo presidente del Consiglio che nella versione rosso-gialla si è subito smarcato dal Movimento; dalla subordinazione della compagine grillina di governo all’alleato di turno, prima Salvini ora Zingaretti, all’impossibilità di tenere fede da Palazzo Chigi ad alcune battaglie storiche del Movimento (i No sulle tav, grandi cantieri, vaccini obbligatori, eccetera); dall’eterogeneità delle posizioni della moltitudine di deputati e senatori eletti, in gran parte privi di qualsiasi pregressa esperienza amministrativa, alla «paura di decidere» rivelata dai sindaci delle principali città a guida M5S fino al disastro Raggi nella Capitale.

Nel rassegnare le dimissioni davanti ai cd facilitatori Di Maio non ha mancato di lanciare le sue stoccate agli oppositori interni e ai fuoriusciti dal Movimento. «I peggiori nemici – ha stigmatizzato – sono quelli che uno non immagina mai di avere e che contraddicono i valori per i quali si è lottato insieme. Sono le persone che al nostro interno lavorano non per il gruppo e per chi obiettivi comuni, ma per la loro visibilità».

A meno che il risultato delle regionali di domani non metterà in discussione la sopravvivenza del governo, Gigino si terrà comunque stretta la poltrona di ministro degli Esteri, e non sembra neppure voler rinunciare a dire la sua nel dibattito interno ai Cinque Stelle.

Dopo aver bacchetto gli oppositori interni, Di Maio ha concluso il suo discorso con un gesto simbolico. Sì è tolto davanti a tutti «quella cravatta che non si toglieva mai» perché e a suo dire «rappresentava un modo di onorare la serietà delle istituzioni e il contegno che deve avere um uomo dello Stato». E pare che l’oggeto in questione sia già diventato una reliquia, finendo conservato in una teca negli uffici Pentastellati della Camera.

Vincenzo Fratta

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