LA SENTENZA DEL «MONDO DI MEZZO»

Buzzi e Carminati
come Riina e Provenzano?

 

I magistrati della Corte di Appello di Roma hanno ribaltato martedì 11 settembre la sentenza di primo grado del processo denominato «Mondo di mezzo», introducendo per Salvatore Buzzi, Massimo Carminati e altri 16 imputati l’associazione mafiosa. In primo grado le condanne erano state per associazione finalizzata alla corruzione e all’estorsione.

Tuttavia, nonostante l’introduzione dell’aggravante mafiosa, le pene per i principali imputati sono state sensibilmente abbassate. Carminati ha avuto 14 anni, invece dei 20 inflitti in primo grado, Buzzi è sceso da 19 a 18. La condanna di Luca Gramazio è passata da 11 ad 8 anni e 8 mesi.

Per comprendere come sia maturata la «paradossale» decisione dei giudici dovremo, naturalmente, attendere le motivazioni della sentenza. Possiamo però formulare delle ipotesi.

Quando nel dicembre del 2014 con i primi 37 arresti scoppiò il caso, eravamo d’accordo con quei commentatori che ritenevano l’accusa di mafia fosse né più né meno un espediente della Procura romana per rendere più eclatante l’inchiesta.

La corruzione di esponenti politici e funzionari regionali e comunali per ottenere illecitamente appalti pubblici – di questo in sostanza si tratta – è una pratica criminale da combattere energicamente, ma ha poco a che vedere con Cosa Nostra, con il modo di agire e i reati commessi da un Totò Riina o da un Bernardo Provenzano.

Diversamente la pensavano invece quegli organi di stampa abituati a prendere per oro colato quanto proviene dagli uffici di piazzale Clodio, e certi esponenti del Partito democratico avvezzi a riempirsi la bocca con il termine «mafia», dimenticando il danno di immagine che il clamore di «Mafia Capitale» ha arrecato alla città di Roma, e soprattutto che l’organizzazione di Buzzi, così come la stragrande maggioranza degli accusati, proviene e fa parte della famiglia della sinistra.

I giudici di primo grado non erano andati «in cerca di gloria» evocando la mafia dove non c’era e avevano riconosciuto e condannato il sistema corruttivo. Peraltro con pene così dure da tenere lontani i possibili strali dei sostenitori di «Mafia Capitale».

Con il passare del tempo però, la parola «Mafia» è diventata quasi un mantra per certa magistratura.

Eclatante il caso della testata inferta il 7 novembre 2017 dal pregiudicato di Ostia Roberto Spada, ad un giornalista televisivo che lo infastidiva. Il malvivente era stato subito arrestato per i reati di violenza privata e lesioni «aggravate dal metodo mafioso», che ha ricevuto conferma dai giudici della IX Sezione che il 17 giugno 2018 hanno condannato lo Spada e il suo guardaspalle a 6 anni di reclusione.

È evidente che il reato, peraltro platealmente commesso davanti alle telecamere, andava adeguatamente punito. Ma che c’entra il metodo mafioso? Dai tempi di Rugantino a Roma la «capocciata» è il metodo più diffuso dal piccolo malvivente di borgata. La testata mafiosa proprio non esiste.

Gli attentati dinamitardi che a Palermo hanno ucciso i magistrati Falcone e Borsellino e le loro scorte, i mitra che hanno freddato il generale Dalla Chiesa e il commissario Ninni Cassarà, le persone che sono state sciolte nell’acido o murate nei piloni di palazzi in costruzione, questi sono i metodi mafiosi!

È dunque possibile che la sentenza di appello per il «Mondo di mezzo» abbia risentito del nuovo «indirizzo» di quella parte della magistratura che ha preso ad ampliare a dismisura il c.d. «metodo mafioso».

Al tempo stesso i giudici della Corte si devono essere resi conto della pesantezza delle pene inflitte in primo grado e le hanno ribassate. In definitiva l’attività criminosa Buzzi, Carminati e soci consisteva nella corruzione, che non prevedeva stragi, omicidi o atti di violenza. Significativa anche la circostanza che a ricevere la pena più alta sia diventato ora Buzzi, ossia il reale «animatore» dell’attività dell’associazione criminale, mentre Carminati, che fungeva unicamente dal «testimonial» del primo, veda la sua pena considerevolmente abbassata.

Alla luce di queste considerazioni riteniamo la Cassazione potrà avere molto da dire sul percorso processuale. Un’ultima riflessione riguarda la probabile adozione per gli imputati del c.d. «carcere duro» previsto dall’art.41 bis della legge Gozzini. Si tratta di un regime carcerario che si applica a singoli detenuti per ostacolare le comunicazioni degli stessi con le loro organizzazioni criminali operanti all’esterno, i contatti tra appartenenti alla stessa organizzazione criminale all’interno del carcere e i contrasti tra gli appartenenti a diverse organizzazioni criminali, così da evitare il verificarsi di delitti e garantire la sicurezza e l’ordine pubblico anche fuori dalle carceri. Siccome è evidente che Buzzi non debba inviare «pizzini» ai responsabili delle sue cooperative sociali superstiti, il suo «carcere duro» sarebbe un trattamento disumano e degradante in contrasto con la sbandierata funzione «riabilitativa» della pena.

Siamo convinti che quando si processano per mafia, persone che hanno sì commesso reati odiosi e da punire severamente, ma che hanno poco o nulla di mafioso, oltre ad infliggere una non corretta pena agli imputati, si discredita la stessa magistratura e si allontanano i cittadini dalla giustizia.

Vincenzo Fratta

 

Nella foto di copertina: il presidente della Terza Sezione della Corte di Appello di Roma legge la sentenza al processo «Mondo di mezzo».
Nella foto in alto: Salvatore Buzzi ripreso dai Carabinieri mentre conversa «di lavoro» con Luca Odevaine, ex vice capo di Gabinetto del sindaco Veltroni e poi responsabile de
l Tavolo di coordinamento sugli immigrati del Viminale. Odevaine era uno dei più autorevoli esponenti della sinistra «al servizio» di Buzzi.
Nella foto sopra: Salvatore Buzzi con il sindaco Ignazio Marino e il vicesindaco Luigi Nieri nella sede della cooperativa «29 giugno».

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