STATI UNITI

Sul ritiro dalla Siria
Trump fa marcia indietro

 

«Nessun ritiro delle truppe Usa dalla Siria»: questa la scarna e chiara dichiarazione rilasciata in fretta alla stampa dall’amministrazione Trump. Forse così rientra la crisi internazionale esplosa con un tweet del Presidente Usa che aveva ipotizzato un rapido disimpegno degli Stati Uniti dal delicato scenario Siriano.

Già l’esercito turco del presidente Recep Tayyip Erdoğan, prendendo la palla al balzo, aveva annunciato il tanto agognato avanzamento in territorio curdo e nottetempo aveva effettuato lanci di razzi verso postazioni avanzate curde. Addirittura si è ventilata un’ipotesi di accordo tra Turchia con i tagliagole dell’Isis per aggirare e sconfiggere i curdi. E proprio questo dovrebbe aver spinto praticamente tutto il Congresso americano a «consigliare» a Trump il retrofront, effettuato in modo fulmineo.

Ora, in un comunicato, si corre a spiegare che si parla che «solo tra 50 e 100 uomini delle forze speciali nel nord della Siria sono interessati dall’ordine del presidente americano, che non vuole metterli in pericolo» saranno dispiegati in altre basi. Ed ancora, si legge nelle agenzie che hanno rilanciato il comunicato “Non c’è nessuna luce verde nei confronti della Turchia per un massacro dei curdi. Dire questo è da irresponsabili. Le azioni decise dal presidente sono solo mirate a proteggere i nostri soldati».

Intanto Erdoğan non ha perso tempo. L’artiglieria turca ha colpito nella notte tra il 7 e l’8 ottobre la zona nord-orientale siriana al confine con l’Iraq. Lo si legge nel lancio di Sana, l’agenzia governativa di Damasco, che parla di bombardamenti avvenuti nei pressi di Simalka, tra Iraq e Siria. Questo rappresenta un e corridoio vitale per i rifornimenti militari e logistici della Coalizione anti-Isis a guida Usa e per le forze curdo-siriane.

Questa è la prova che la Turchia non la manda a dire e infatti risponde spavaldamente agli Usa: «non cediamo alle minacce di nessuno». «Il nostro messaggio alla comunità internazionale è chiaro. La Turchia non è un Paese che agisce sotto minaccia». Lo ha detto il vicepresidente turco, Fuat Oktay, riferendosi alle parole di Donald Trump che aveva minacciato di «distruggere» l’economia turca in caso il governo di Recep Tayyip Erdogan superi «i limiti» nell’imminente operazione militare contro le milizie curde dell’Ypg nel nord-est della Siria.

Sembra che non ci siano state perdite umane e quindi il popolo curdo, da sempre suddiviso, smembrato e combattuto da tutti i fronti, tira l’ennesimo sospiro di sollievo per lo scampato pericolo, almeno per ora gli Usa, nonostante le parole da smargiasso del vicepresidente turco Oktay, hanno tirato il freno di stazionamento alle manovre militari turche.

Il triangolo siriano, premuto a nord dalle mire espansionistiche di sempre della Turchia, sconquassato internamente dalla guerra di liberazione contro l’Isis, circondato da Giordania Iraq e Libano è un territorio delicatissimo e da sempre ambito per la sua strategica posizione. Già dagli anni settanta del secolo scorso, gli Usa hanno contribuito al mantenimento di un certo grado di destabilizzazione, finanziando alternativamente regolari e ribelli, curdi e talebani ma, fino ad ora, almeno, avevano assicurato la loro presenza per il mantenimento di quel minimo di ordine e sicurezza che sono necessari alla sopravvivenza dei civili.

Questo quadro, improvvisamente esploso, è stato scatenato da una telefonata fatta da Erdoğan a Trump nella quale i presidente turco aveva espresso la sua frustrazione per la mancanza di progressi nella creazione di una “safe zone” nel nordest della Siria che gli era stata promessa ad agosto dalla Nato. Erdogan avrebbe avuto il controllo di una ampia fascia di territorio. Circa trenta chilometri di profondità in territorio ora controllato dai curdi siriani e lungo più di 400 chilometri ad est del fiume Eufrate, a ovest dell’Eufrate ci sono già forze alleate con la Turchia.

Questo corridoio servirebbe come l’aria ad Erdoğan infatti ci vorrebbe ricacciare tutti i profughi siriani che negli ultimi anni si sono rifugiati in Turchia oltre ad indebolire ulteriormente i nemici curdi. Le difficoltà per la realizzazione delle promesse avrebbe spinto Trump, in pratica, a mandare al diavolo Erdoğan disponendo il ritiro delle truppe ed affermando che la situazione sarebbe dovuta essere risolta da Russia, Europa, Turchia e da quanti coinvolti e non più dagli Usa.

Con l’ultima uscita si smentisce almeno il disimpegno Usa in territorio curdo-siriano. Comunque la si veda, l’accordo sulla «safe zone» sembra definitivamente tramontato. Qualche curdo per il momento esulta per lo scampato pericolo mentre i miliziani terroristi dell’Isis vedono sfumare una facile vittoria per un possibile riposizionamento, almeno per ora la faccenda sembra sistemarsi in questi termini. Comunque tutto è più che mai in equilibrio precario.

La Turchia, vedendo evaporare la possibilità del suo ingresso in Europa, sta gettando la maschera. Un’Europa forte ed autorevole sarebbe necessaria in un quadro così instabile e così vicino. Urgono profonde modifiche alla macchina europea.

Urge far riacquistare all’Europa credibilità, in primis verso i propri cittadini, così da poi poter alzare la voce e fermare quello che sembra proprio l’inizio di un nuovo conflitto nascente sulle ceneri di uno appena sopito. Conflitto pericolosissimo, questa volta, che potrebbe risucchiare anche altre nazioni tra quelle a noi molto vicine.

Lino Rialti

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