STATI UNITI

La furia iconoclasta
del politicamente corretto

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I tragici incidenti di Charlottesville che hanno portato alla morte di un manifestante, hanno fornito ai media italiani l’occasione, oltre che per attaccare il presidente Trump, per mettere in risalto un presunto, pericoloso ritorno negli Stati Uniti del razzismo modello Ku Klux Klan. Si tratta, come spesso accade, di una visione distorta di quanto sta avvenendo oltreoceano. Accanto alla condanna della violenza, che non ha giustificazioni, da qualunque parte essa provenga, crediamo sia opportuno fare un poco di chiarezza.

La Guerra di Secessione. La guerra civile americana inizia il 12 aprile del 1861, quando la rivalità tra gli stati agricoli del Sud e quelli industriali del Nord si acuisce con l’elezione del presidente Abramo Lincoln, del quale era nota l’intenzione di abolire la schiavitù, uno degli elementi su cui si fondava la prosperità degli stati meridionali. La schiavitù, che comunque resterà in vigore su tutto il territorio americano per l’intero periodo bellico, è dunque soltanto la causa scatenante di un dissidio molto più profondo.

Dopo che il South Carolina ha indetto una convenzione per staccarsi dall’Unione alla quale in pochi mesi hanno aderito 11 stati, l’Unione le dichiara guerra e fa marciare verso il Sud i suoi eserciti. I 24 Stati nordisti contano 22 milioni di abitanti e 990 mila soldati, la Confederazione del Sud soltanto nove milioni di abitanti, di cui tre e mezzo schiavi, e 690 mila soldati. Nonostante la forte sproporzione di risorse e di uomini in campo, il valore dei soldati Confederati e la bravura militare del generale Robert Edward Lee terranno lungamente in scacco gli avversari. Il Sud si arrenderà il 9 aprile 1865, dopo quattro anni di combattimenti durissimi. Nel conflitto sono state impiegate per la prima volta le moderne armi di distruzione di massa, anticipando quanto avverrà con la «guerra di materiali» che insanguinerà l’Europa nella Prima Guerra Mondiale.

Il numero complessivo di morti è stimato in almeno 1.030.000 vittime (670mila Confederati e 360 Unionisti), pari 3% della popolazione americana, di cui circa 620.000 soldati, i due terzi dei quali per colpa delle malattie, e 50.000 civili. Sulla base di un censimento del 1860, l’8% di tutti i maschi bianchi di età compresa tra 13 e i 43 anni sono morti nella guerra, di cui il 6% al Nord e il 18% al Sud. Circa 56.000 soldati sono deceduti nei campi di prigionia durante la guerra. Si stima che circa 60.000 uomini persero almeno un arto in battaglia.

La causa persa. Per gli statunitensi, la guerra di secessione è stato il conflitto più sanguinoso di tutte le guerre combattute dagli Stati Uniti messe insieme. Tuttavia essi erano sembrati capaci di far tesoro da quanto era successo, come spiega Piero Visani, in uno dei pochi commenti assennati su quanto sta avvenendo in America, in un articolo del 13 agosto, dal titolo Dietro i fatti di Charlottesville: «Dopo la pesante sconfitta subita nella Guerra Civile, il Sud fu oggetto di una pesante occupazione militare che ridusse molti suoi Stati alla fame. Al tempo stesso, l’abolizione della schiavitù non rappresentò – per la popolazione afro-americana – quel toccasana che avrebbe dovuto rappresentare, visto che i neri andarono a svolgere, nelle grandi fabbriche del Nord, quel ruolo servile che avevano sempre svolto nelle piantagioni del Sud, formalmente assimilati ai bianchi nei diritti civili, in realtà emarginati e discriminati in forma solo più scaltramente ipocrita della precedente.

A partire dalla fine dell’Ottocento e poi sempre più solidamente nel Novecento, il Sud riuscì a compiere, a livello metapolitico, un miracolo di cui nessuno si sarebbe minimamente attesa la realizzazione: riuscì cioè a creare una memoria dei vinti che non solo conferì legittimità alle loro scelte e ai loro comportamenti, ma che costruì progressivamente una metapolitica positiva che conferì onore e prestigio al sacrificio e agli sforzi compiuti da centinaia di migliaia di uomini sui campi di battaglia, e non solo».

Se negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento non mancò qualche eccesso da parte di una minoranza di suprematisti bianchi modello Ku Klux Klan, prontamente represso dal Governo Federale, a partire dagli anni Ottanta si fece strada nel Sud «una visione politica e metapolitica decisamente più intelligente, che rivaluta accortamente il ruolo della Guerra Civile come guerra sostenuta dai poteri locali contro un potere centrale, quello di Washington e del governo federale, brutalmente autoritario, centralista, interessato solo all’esazione fiscale e alla privazione delle libertà civili garantite dalla Costituzione. Questa visione – accuratamente depurata da tesi insostenibili, come quella della legittimità della schiavitù, vista ormai come un fenomeno connesso ad una situazione economica in rapida evoluzione, dove gli Stati del Sud più avanzati, a cominciare dalla Virginia, stavano rapidamente liquidando le piantagioni, affrancando gli schiavi e aprendosi a forme economiche più moderne, come l’industrializzazione – ha cominciato a raccogliere seguaci in varie aree del Paese, anche in quegli Stati del Midwest e dell’Ovest che non avevano fatto parte della Confederazione, ma dove la gente sentiva sempre più come intollerabile il peso del potere centrale».

La furia iconoclasta. A fronte di questa maturazione avvenuta al Sud, è in atto invece da parte degli ambienti del «politicamente corretto» un processo di criminalizzazione delle personalità più autorevoli della vecchia Confederazione. Il primo obiettivo di questi fanatici è proprio il generale Lee, onorato e immortalato in decine di statue nelle maggiori città del Sud per il suo valore militare, che viene oggi strumentalmente e impropriamente presentato come l’emblema del razzismo e come tale indegno di adornare le piazze.

Un articolo del Corriere della Sera del 31 maggio scorso, aveva affrontato l’argomento, pur non comprendendone a fondo la portata, con l’articolo Good bye, Robert E.Lee: gli Usa nascondono gli eroi del Sud, firmato da Silvia Morosi e Paolo Rastelli. Eccone uno stralcio: «La stessa sorte è poi toccata alla statua di Jefferson Davis, il presidente della Confederazione sudista durante la Guerra civile (1861-65), situata nel quartiere operaio di Mid-City. In seguito è stata rimossa la statua equestre del generale confederato Pierre Gustave Toutant de Beauregard, l’eroe della prima battaglia di Bull Run (1861) e dello scontro di Shiloh (1862), che dominava il rondò alle porte del parco cittadino. Infine l’oltraggio supremo: è stato tirato giù dalla sua colonna alta 20 metri, in pieno centro, nientemeno che il monumento in bronzo di 5 metri del generale Robert E. Lee, il capo dell’Armata della Virginia settentrionale, l’uomo che tenne in scacco per quattro anni l’esercito dell’Unione sul fronte virginiano e arrivò a minacciare Washington prima della battaglia di Gettysburg. Forse l’uomo d’armi più venerato d’America, su cui è stata costruito un mito di coraggio, nobiltà, generosità e capacità militari».

Niente, abbiamo detto e lo ribadiamo, giustifica la violenza, ma che dire del video che mostra l’abbattimento della statua del generale Lee…

Vincenzo Fratta

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