Utilizziamo solo il metro della legge e la discussione è finita ancora prima di cominciare. Luigi Mangione ha ammazzato Brian Thompson e lo ha fatto deliberatamente. A colpi di pistola. Con l’intento di uccidere.
Nessun dubbio. Il responsabile è lui e lo hanno arrestato. Il processo al quale va incontro ha un esito già scritto: colpevole, senza nessuna attenuante. Il reato è gravissimo, per le sue conseguenze irrimediabili, ed è probabile che la sanzione sia la più dura.
Una condanna a vita, visto che nello Stato di New York non è prevista la pena di morte. Magari un ergastolo effettivo, di quelli che escludono la possibilità di ottenere, o prima o dopo, la libertà condizionale.
Tutto nitido e consequenziale, a norma di legge. E anche su un piano non prettamente giuridico, in base ai principi che si sono affermati nelle nostre società e che di per sé sono sacrosanti. Nessuno può farsi giustizia da solo, quali che siano le sue motivazioni. Nessuno può aggredire e ferire un altro essere umano, e figuriamoci ucciderlo.
Ma nel caso specifico non è tutto qui. Non è così semplice. Cristallino. Conclusivo.
Queste lampanti verità vanno a cozzare contro un aspetto di non minore rilievo. Che in questa vicenda è anch’esso lampante.
La legge e l’etica possono non coincidere. Anzi, possono essere agli antipodi.
Chi era Brian Thompson
Cominciamo dalla vittima. Brian Thompson, cinquant’anni, era il capo di UnitedHealthcare, un colosso delle assicurazioni e dei servizi sanitari. Unico principio a cui attenersi, il massimo profitto. Da conseguire con ogni mezzo e contro gli interessi, legittimi, dei suoi stessi assicurati.
Come ha titolato un libro-denuncia uscito nel 2010, : Why insurance companies don’t pay claims and what you can do about it. Ovvero: «Ritardare Negare Difendere [sottinteso: in tribunale]: perché le compagnie assicurative non pagano i sinistri e cosa puoi fare al riguardo».
Passiamo all’assassino. Luigi Mangione, 26 anni, è un giovane di famiglia agiata ed è stato uno studente brillante, laureato a pienissimi voti nella Pennsylvania University. Materia principale, Computer science. Seguita da un master in ingegneria.
Le premesse di una vita professionale ben retribuita c’erano tutte. Nulla a che vedere con un disadattato rancoroso che ha fallito i suoi obiettivi e che perciò vuole vendicarsi di chi, come Thompson, ha avuto successo e guadagna soldi a palate.
La scelta di Luigi Mangione
Dopo di che… «A un certo punto – scrive il Corriere della Sera – questo ragazzo solare, che parla in pubblico, che è oggetto di storie sui giornali locali e nel suo profilo LinkedIn scrive di aver lavorato in una casa per anziani quando aveva 16 anni, si radicalizza: le sue critiche alle distorsioni del capitalismo si fanno sempre più nette».
Imbattutosi nel vecchio e famigerato Manifesto di Unabomber, il cui vero titolo era «La società industriale e il suo futuro» e che venne pubblicato nel 1995 dal New York Times e dal Washington Post, si rende conto che quelle argomentazioni sono tutt’altro che campate per aria.
Le tesi dell’autore sono drastiche o persino estreme? Senza dubbio.
Sono anche infondate e deliranti? No. No che non lo sono.
Quale giustizia, in quale società
È qui la contraddizione. Che solleva un dilemma morale. Luigi Mangione ha commesso un crimine tra i più gravi e tuttavia non è un criminale. Ma una sorta di giustiziere.
Brian Thompson non ha commesso nessun crimine e tuttavia non era certo un bell’esempio di cittadino, che avesse a cuore le sorti dei suoi stessi connazionali e che improntasse il proprio lavoro al bene comune.
Luigi Mangione ha agito per motivi ideali e non ha nemmeno fatto un granché per sfuggire alla cattura, così come non si è appellato a nessun alibi: riteneva «giusto eliminare quel parassita» e quindi l’ha fatto.
Di fronte a quegli abusi incessanti, e talmente deliberati e insistiti da apparire la vera mission della multinazionale capitanata da Thompson, ha deciso che non poteva rimanere inerte.
Un duro prezzo da pagare
Le autorità se ne infischiano – anzi, avallano quei metodi e quelle finalità – e lui ne ha preso il posto. Surrogandone le funzioni. Che non dovrebbero esaurirsi nella mera applicazione delle leggi esistenti ma tendere, sempre, alla congiunzione, alla saldatura, alla fusione tra le norme formali e l’equità sostanziale.
Mangione ha ucciso e pagherà duramente per questa sua scelta. Ma a meno di rifugiarsi nel più ottuso conformismo, che si appiattisce sul dogma della legalità purchessia, bisogna riconoscere che c’è un’abissale differenza tra lui e i criminali autentici che meritano di marcire in galera. O persino di essere giustiziati.
I killer di professione, ad esempio. I trafficanti di droga, a cominciare dal fentanyl. I pedofili, a maggior ragione se violenti.
Mangione, in un certo senso, si è immolato in nome di un principio superiore. Ha accettato di finire schiantato sul piano individuale affinché un’infamia collettiva venisse messa sotto i riflettori e stigmatizzata con maggiore forza.
Purtroppo, per quello che sono gli Stati Uniti, è pressoché sicuro che non ci sarà nessun cambio di rotta e che le cose continueranno ad andare, male, come sono andate finora.
Ma il suo sacrificio rimane. E non ci lascia indifferenti.
Gerardo Valentini