Ricorrono in questi giorni i cinquant’anni dalla morte di Jan Palach, lo studente cecoslovacco che il 16 gennaio 1969 si diede fuoco in piazza San Venceslao a Praga e morì dopo due giorni di sofferenze. Il suo gesto ebbe vasta risonanza in un’Europa, che pure era rimasta sostanzialmente inerte, l’anno precedente, di fronte all’entrata nel paese dei carri armati venuti a spegnere ogni speranza di indipendenza dal comunismo sovietico, nata con la Primavera di Praga.
Tra i giornali che hanno dedicato spazio all’anniversario, meritano rilievo le pagine dell’inserto culturale del Corriere della Sera. Oltre al ricordo della figura di Jan Palach La Lettura ci fa «scoprire» che l’estrema protesta di consegnare il proprio corpo alle fiamme fu compiuta anche da altri 12 cittadini delle nazioni dell’Europa dell’Est schiacciate dal giogo sovietico.
Due di loro si sacrificarono prima di Jan Palach, mentre gli altri dieci seguirono nei mesi e negli anni successivi, fino al 1989. A donare la loro vita per protesta contro l’oppressione comunista furono un polacco, un lituano, un ungherese, un tedesco dell’Est, due romeni, tre cecoslovacchi e tre ucraini. Quando accese il suo corpo in piazza San Venceslao, lo studente di Praga non era a conoscenza che il polacco Siwiec e l’ucraino Makuch l’avevano preceduto nell’estremo sacrificio, mentre è probabile che il gesto estremo degli altri tre cecoslovacchi sia stato ispirato al suo sacrificio. A loro aggiungiamo il francese Alain Escoffier, anticomunista e marito di una rifugiata della Germania dell’Est, che 10 febbraio 1977 si diede fuoco sugli Champs-Élysées davanti alla sede dell’Aeroflot, la linea aerea sovietica, al grido di «Comunisti assassini».
La risonanza che ebbero i casi di sacrificio con il fuoco nell’Est europeo fu purtroppo certamente minore. In tutti i casi il Kgb cercò di far trapelare il meno possibile la notizia e le motivazioni del gesto, mentre la memoria dei sacrificati venne infangata e le loro famiglie vessate. Il copione – spiega Federigo Argentieri su La Lettura – era sempre lo stesso: stretto controllo del moribondo, persecuzione di famigliari e amici, confisca di materiali, obbligo di svolgere il funerale in segreto, diffamazione costante del personaggio, dipinto come una «squilibrato», eccetera.
I tre patrioti ucraini. L’Ucraina aveva combattuto invano per la propria indipendenza contro il nascente regime bolscevico nel 1919-20, aveva subito il genocidio per fame ordinato da Stalin nel 1932-33 e aveva cercato ancora di liberarsi dal gioco comunista durante il Secondo conflitto mondiale. Il suo anelito all’indipendenza che si concretizzerà soltanto nel 1991, con la dissoluzione dell’Impero sovietico, fu alimentato anche dallo spirito dei suoi tre figli che compirono il disperato gesto di offrire il proprio corpo alle fiamme.
Il primo fu Vasyl Makuch che il 5 novembre si immolò lungo viale Kreshchatick, il corso principale di Kiev sul quale si affaccia piazza Maidan, e morì il giorno successivo. Makuch era nato nel 1927 e aveva combattuto nell’Armata Insurrezionale Ucraina (Upa) che resistette ai sovietici sulle montagne dell’Ucraina occidentale fino al 1954. Dopo che il 5 marzo 1950 il comandante militare dell’Upa Roman Šhukhevyć era stato ucciso in un’imboscata, la guerriglia era proseguita ancora per quattro anni fino alla cattura del suo successore. Il capo politico del Movimento Nazionalista Ucraino (Oun) Stepan Bandera, in esilio in Germania, fu invece ucciso a Monaco da un sicario sovietico nell’ottobre 1959.
Il secondo patriota ucraino a uccidersi con fuoco fu il sessantaseienne Oleksa Hyrnik che, per protestare contro il tentativo di cancellare l’identità nazionale del suo popolo attraverso la russificazione forzata, il 21 gennaio 1978 compì il gesto estremo a Kaniv una città dell’Ucraina centrale, lungo le rive del fiume Dnipro.
l 23 giugno dello stesso anno, a Besh-Terek in Crimea, si consegnò alle fiamme il tataro Musa Mamut. I Tatari di Crimea, come tutte le etnie presenti nei territori finiti sotto la dominazione sovietica era stata duramente perseguitata dal regime comunista. In particolare i circa 200mila Tatari di Crimea erano stati deportati nel maggio 1944. Sui vagoni dei treni che li trasportavano nelle Repubbliche centroasiatiche erano morti a migliaia per la fame, gli stenti e le malattie. Un’identica sorte in Crimea, era toccata due anni prima, alla piccola comunità italiana di Kerch.
Insieme a Jan Palach ricordiamo quindi anche tutti coloro che donarono la vita al fuoco per protestare contro i regimi comunisti che opprimevano i loro paesi. Con un’attenzione particolare all’Ucraina la cui indipendenza è di nuovo minacciata.
Vincenzo Fratta
Nella foto di copertina: il corpo di Vasyl Makuch avvolto dalle fiamme a Kiev.
In alto: il luogo del sacrificio di Jan Palach a Praga coperto di fiori.
Al centro: monumento a Oleksa Hyrnik a Kaniv.
Sopra: un pannello in ricordo del sacrificio del tataro di Crimea Musa Mamut