AMAZZONIA

La foresta che brucia
oscura il cielo di San Paolo

 

La foresta pluviale amazzonica, vero polmone del mondo che produce il 20% dell’ossigeno, sta bruciando ininterrottamente da venti giorni. Secondo i dati diffusi dalle agenzie che forniscono in tempo reale le mappe degli incendi, le fiamme si mangiano l’equivalente di tre campi da calcio al minuto. Tra l’1 e il 22 agosto 2019, sono stati segnalati 318.569 focolai, dei quali 66.393 si sono registrati nello Stato del Parà e 54.823 nel Mato Grosso.

Gli incendi nella stragrande maggioranza dei casi sono appiccati da contadini e allevatori che in questo modo vogliono «liberare» la terra per estendere coltivazioni o pascolo.

L’estensione delle fiamme è tanto ampia che il fumo provocato è visibile dallo spazio. Un fumo che assorbe la luce solare, impedendole di raggiungere il suolo, raffreddando la superficie e riscaldando l’atmosfera. Un processo che può impedire la formazione di nuvole.

Gli effetti della combustione della foresta, spinti dal vento, hanno percorso migliaia di chilometri e lunedì 19 agosto, a metà pomeriggio, il cielo di San Paolo è diventato nero.

Mentre il mondo si sta allarmando, al punto che emergenza incendi in Amazzonia è entrata di prepotenza nell’agenda del G7 in corso a Biarritz in Francia, il presidente del Brasile Jair Bolsonaro ha provato a minimizzare quanto sta accadendo, poi resosi conto dell’indifendibilità della sua posizione, ha prima accusato di ingerenza i leader delle altre nazioni interventi sull’argomento e poi affermato di non avere le risorse per far fronte alla situazione.

La minaccia delle sanzioni sui prodotti brasiliani e la mobilitazione planetaria che monta, sembra aver fatto infine breccia nella mente del presidente verdeoro che sta valutando l’opportunità di inviare l’esercito per combattere le fiamme in Amazzonia.

Accanto rischio «mondiale» prodotto dall’avanzare della deforestazione, l’aumento esponenziale delle «queimadas» nella foresta pluviale produce delle vittime immediate. Innanzitutto gli indios che vivono nelle zone devastate dalle fiamme. In secondo luogo gli animali e le piante, gioiello di diversità biologica e possibili risorse di un’economia amazzonica sana.

Quello degli incendi dolosi in Amazzonia è un fenomeno ricorrente che non nasce oggi. Certamente però le posizioni anti-ambientaliste e ostili agli Indios dell’attuale presidente del Brasile non aiutano a migliorare le cose.

Quello che Bolsonaro non vuole o non riesce a comprendere è che la distruzione di porzioni sempre maggiori della foresta pluviale non è soltanto un crimine, ma è anche un cattivo «investimento economico».

La foresta è un ecosistema fertile e fecondo, che attraverso i suoi frutti e le proprietà farmaceutiche delle sue piante potrebbe fornire sufficiente ricchezza, se sfruttata in maniera intelligente e sostenibile.

La terra nuda che rimane dopo la deforestazione è invece poco adatta allo sfruttamento intensivo per il pascolo o per la coltivazione della soia. Dopo un paio di anni la sua capacità produttiva si è già esaurita e sono molte le porzioni di ex foresta divenute piantagioni che vengono abbandonate perché non più remunerative.

Insomma bruciando la foresta si mette in pericolo l’ecosistema del nostro pianeta, si distrugge un patrimonio vegetale e faunistico difficilmente recuperabile, si brucia la casa degli Indios, ma nel medio termine si fa anche un danno economico all’economia della regione Amazzonica e conseguentemente del Paese intero. Quanto ci vorrà perché in Brasile lo comprendano, partendo dal presidente per poi scendere «giù peli rami»?

Vincenzo Fratta

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