IL GENOCIDIO IN PALESTINA

Aaron Bushnell
come Jan Palach

Il 26 febbraio il soldato Aaron Bushnell si è dato fuoco davanti all’ambasciata israeliana a Washington

 

Il 26 febbraio il soldato Aaron Bushnell è arrivato davanti all’ambasciata israeliana a Washington senza destare sospetti con la divisa dell’aeronautica Usa, si è messo il berretto d’ordinanza, e dalla borraccia che teneva in mano si è cosparso il corpo di liquido infiammabile.

Nella lettera di San Paolo ai romani (RM, 5, 5-11), l’Apostolo dice «Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi».

Aaron Bushnell era un membro effettivo dell’US Air Force che riteneva responsabile per il supporto al bombardamento continuo operato dagli Israeliani a Gaza, dalle tremende conseguenze, parificato da lui stesso, ma anche da figure istituzionali poste a presidio dei diritti umani, come «genocidio».

Il significato della parola olocausto è riferito alla vittima bruciata per intero nella tradizione sacerdotale greca ed ebraica.

Un gesto estremo, come Jan Palach

L'omaggio sul luogo dove Aaron Bushnell ha compiuto il sacrificio estremoIl gesto di Aaron Bushnell, estremo anche nelle parole del suo stesso autore, ma, se raffrontato con quanto patisce la popolazione palestinese «non poi così estremo» (cit.), è stupefacente e per certi versi inedito.

Si sono visti i monaci tibetani darsi fuoco contro l’occupazione cinese, l’esempio di Jan Palach contro il regime sovietico, persone vessate dallo Stato, ma «immolarsi» per un popolo così lontano dalla tua vita di occidentale, trovo sia qualcosa di unico.

Le immagini sono forti, e sconvolgenti, e non possono non interrogare sulla gravità di ciò che sta accadendo nella Striscia di Gaza.

L’accusa di genocidio a Israele

Sono oltre 28mila i Palestinesi uccisi a Gaza, in grandissima parte civiliCome noto, Israele ha affrontato il primo processo per genocidio, in cui, peraltro, il 26 gennaio, sono state stabilite delle misure cautelari per prevenire la violazione genocidaria che si è reputata, prima facie, plausibile.

Dopo ciò, Israele ha tentato in tutti i modi di delegittimare le istituzioni umanitarie che fanno capo all’Onu e che operano in territorio palestinese, coinvolgendo anche l’Italia che ha sospeso i finanziamenti a favore di una popolazione già stremata.

Chi ha cercato di coniugare un pensiero un po’ più complesso rispetto a «distruggere Hamas e tutti i filistei», è stato subito stigmatizzato. Così anche la relatrice dell’Onu per i diritti umani nei territori palestinesi è finita ne mirino.

J’accuse di Federica Albanese

Federica Albanese è reduce da una recente pubblicazione, non un instant book, ma un sunto delle sue ricerche, declinate in maniera più divulgativa come risposte a domande (in sé già tesi, peraltro).

La relatrice è una cultrice del diritto internazionale e, oltre a delineare le plurime violazioni nella risposta israeliana agli attacchi del 7 ottobre (al di là dei singoli episodi, come gli attacchi agli ospedali, alle moschee e alle Chiese), cerca di fornire un quadro storico più completo della situazione palestinese dal 1947.

La tesi più interessante riguarda proprio l’efficacia del diritto internazionale, un tema collaterale alle situazioni belliche attuali.

I limiti del diritto internazionale

Spesso ci si è lamentati dell’impossibilità di una sua implementazione, mancando l’impianto coercitivo. Ebbene, l’autrice ricorda a noi stessi come lo sviluppo e la concretezza del diritto dipenda dagli attori del diritto internazionale, gli Stati stessi. Sicuramente, porre veti preventivi ad ogni ipotesi più distensiva dal brutale bombardamento e delle tragiche ed esponenziali conseguenze di questi, è un grande passo indietro.

Il riferimento è ovviamente agli Usa e alla loro politica internazionale, che ha fatto regredire le conquiste del dopoguerra, ma anche all’Unione Europea, incapace di dare continuità ai principi su cui è stata fondata (trattato sull’Ue, art. 21).

A riguardo del conflitto in corso, ci sono alcuni principi di diritto internazionale che vengono ribaditi dall’autrice perché negletti in Occidente: esiste infatti il diritto alla resistenza del popolo palestinese, come affermato dalla risoluzione n.3236 dell’Assemblea generale dell’Onu, paragrafo 5, che riconosce «il diritto del popolo palestinese di riacquistare i suoi diritti con tutti i mezzi in conformità con gli scopi e i principi della Carta delle Nazioni Unite»; inoltre, come affermato dalla Corte internazionale di giustizia, anche in un parere del 2004 sul territorio palestinese occupato, Israele non può invocare il suo diritto di autodifesa in risposta agli attacchi da parte di gruppi emananti dal territorio occupato, che non possono essere imputati a uno Stato straniero.

Si tratterebbe quindi di usare mezzi proporzionati per ripristinare l’ordine e la legalità, non certo un guerra su larga scala, peraltro, alla luce dell’esperienza ventennale in Afghanistan, fallimentare.

Il divieto tedesco di pensare

C’è poi un altro aspetto collegato a quanto precede ed è il Denkverbot (il divieto tedesco di pensare). Associare antisionismo e antisemitismo, in particolare, sull’onda della definizione data dall’Ihra (International Holocaust Remembrance Alliance) di «antisemitismo», comporta dei cortocircuiti fortemente illiberali. Al di là che la legge sullo «Stato ebraico» è successiva a tale definizione, ed è un pericoloso avveramento di questo accostamento, ciò, evidentemente, intimidisce ogni pensiero critico. L’applicazione pratica di queste premesse vieta di parlare della politica di Israele come apartheid o colonialismo, arrivando a delle censure grottesche, e a doppi standard.

Se più di un intellettuale occidentale (ad esempio Edward Luttwak) ha parlato di responsabilità collettiva dei palestinesi (per giustificare la punizione collettiva a loro inflitta), violando le medesime censure nei confronti del popolo ebraico, in Germania, alla Berlinale, proprio gli autori di un premiato documentario proprio sull’occupazione israeliana di Hebron, un palestinese e un  israeliano, sono stati ambedue accusati di «antisemitismo», perché il secondo avrebbe detto che, tornati in Israele, il primo sarebbe vissuto in una situazione di apartheid.

Il prossimo obiettivo è Rafah

Mentre il Governo israeliano comincia a reprimere anche gli israeliani che chiedono più impegno nel liberare gli ostaggi, è partita l’offensiva su Rafah, un tempo indicata come meta sicura dal Governo israeliano, dove è concentrato un milione e mezzo di sfollati.

Quello che sembra evincersi è il totale disallineamento del governo israeliano dal diritto internazionale e dall’interesse della sua stessa popolazione. Quando sarà scemata l’onda emotiva, amplificata volutamente per inibire ogni processo lungimirante, ci ritroveremo a fare i conti con le macerie di un paese (o forse di due), ma anche delle nostre conquiste giuridiche.

Armando Mantuano *avvocato

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