GUERRA E DEMOCRAZIA

La distruzione di Gaza
non è un male necessario

Galli della Loggia e la guerra come motore della storia. Gaza come Dresda?

 

Ci sono conflitti paradigmatici che assumono valore anche nel ridefinire l’immaginario contemporaneo, tra questi, certamente, il conflitto Israele/Palestina (in fieri). La riflessione sulla guerra ha portato ad un’editoriale importante da parte di Ernesto Galli della Loggia nell’edizione del Corriere della Sera del 5 novembre 2023 (link), che merita certamente un approfondimento.

Per il filosofo greco Eraclito la Guerra (Polemos) è «la madre di tutte le cose e di tutte regina, alcuni rende dei, altri uomini, alcuni schiavi, altri liberi».Il titolo «la storia figlia delle guerre» ricalca il celebre passo di Eraclito in cui il filosofo individua in Polemos, «la madre di tutte le cose e di tutte regina, alcuni rende dei, altri uomini, alcuni schiavi, altri liberi».

Il concetto è ripetuto in maniera più specifica anche all’interno dell’articolo, per indicare il rapporto stretto tra armi e democrazia: in breve la Prima guerra mondiale ha fondato gli Stati nazionali, premessa di democrazia e quest’ultima ha vinto, insieme agli Usa, la Seconda guerra mondiale e la sua prosecuzione, la guerra fredda.

Il passaggio successivo è però passare, senza soluzione di continuità, dalla guerra al voluto sterminio come «male necessario», per far trionfare un presunto bene di cui sarebbero rappresentanti gli Stati occidentali, ossia la democrazia. Senza crimini non ci sarebbe stata la democrazia in Europa (sic!).

Viene quindi citato un libro che documenta la ferocia dei bombardamenti inglesi contro la Germania, senza lesinare sui particolari: venivano usate le bombe al fosforo, che dilaniavano i corpi riducendone di un terzo la consistenza, provocando venti che facevano bollire addirittura le strade, e portavano i sopravvissuti alla demenza. Il «dovere della memoria», quindi dovrebbe farci ricordare che è «questo tipo di guerra che ha portato la democrazia in Europa».

Attenzione, si dice, la politica e la storia sono cose «maledettamente serie» dove «quasi mai il male può essere sconfitto dal bene» e per affermare le proprie «ragioni» anche «il bene è costretto a servirsi dei mezzi più discutibili», queste cose maledettamente serie non sopportano i moralismi, gli slogan nelle piazze e (qualche volta) «nemmeno le pandette dei Tribunali».

L’Occidente terminale

La città di Dresda distrutta con le bombe al fosforo dagli inglesi durante la Seconda guerra mondialeFin qui l’illustre articolista, che non è certo solo in questa danza macabra, ma rappresenta bene quel corto circuito di un’ideologia che per eterogenesi dei fini si sta risolvendo nel suo contrario.

Le aporie logiche sono consistenti, ovviamente, ma lo stile spesso emotivo di certe affermazioni, volte più a catturare il senso di colpa che la ragione del lettore, ci hanno certamente abituato ad una scarsa coerenza.

Si può notare, però, un salto di qualità in una narrazione che pone in un gradino mitico il passato europeo, come modello di gestazione di una forma di governo da replicare ad ogni latitudine, garantendo, ma è un dettaglio, il perpetuarsi di quell’egemonia che si è stabilita dopo la Seconda guerra mondiale.

C’è ovviamente un motivo per questa sperticata apologia della ferocia (a fin di bene, ma di chi?): Israele, la punta della democrazia occidentale in Medio Oriente, ha compiuto più di un possibile crimine di guerra, e l’imbarazzo di chi sfornava «pandette», «slogan» e «moralismi» per giustificare le restrizioni economiche e il proliferare dei mercati delle armi, ha raggiunto il parossismo.

Non può certo aversi un’indignazione, reale, per gli effetti di una guerra in Ucraina, certo logorante, ma in sostanziale stallo, rispetto alla conclamata indifferenza rispetto a quanto sta accadendo in quel piccolo lembo di terra che la storia cercherà sul mappamondo (magari senza più trovarlo, o trovandone solo una metà). In pochi giorni sono morti tanti bambini quanti quelli dei cinque maggiori conflitti nel 2017: Afghanistan, Yemen, Iraq, Syria, Nigeria (Blast Injuries, Save the Children 2019). Una mattanza difficile da giustificare o ignorare.

C’è però di più e peggio: la retorica stantia sul fondamentalismo (sempre degli altri) non può che zittirsi di fronte ai riferimenti, espliciti, agli stermini biblici, da parte non di qualche esaltato, ma dello stesso «comandante in capo» (Netanyahu nel «discorso alla nazione» cita esplicitamente 1Sam 15;3 «Va’ dunque e colpisci Amalek e vota allo sterminio quanto gli appartiene, non lasciarti prendere da compassione per lui, ma uccidi uomini e donne, bambini e lattanti»).

Lo jus ad bellum

I bombardamenti israeliani stanno sistematicamente distruggendo Gaza provocando la morte di migliaia di civili palestinesi.Il relativismo morale che sembra ormai la cifra dell’ideologia portante dell’Occidente, per cui l’esportazione della democrazia coincide senza vergogna con l’estendersi della sua sfera di potere, ha eroso, con queste ultime «imprese», non solo la credibilità dei paesi delle cosiddette «democrazie adulte» (ma forse adulterate), ma anche una linea di confine (variabile come quello dello Stato di Israele), tra il bene e il male.

Se la lotta dei popoli può sopportare l’uso di «mezzi più discutibili», tra cui lo sterminio voluto della popolazione di un paese nemico, cosa ci impedisce di sdoganare gli atti terroristici (dagli effetti peraltro più limitati)?

Per dovere di memoria dovremmo peraltro ricordare la storia dell’Irgun (il cui leader divenne primo ministro israeliano), e di altre bande ebraiche similari, protagoniste di attentati anche in Europa e che furono classificate come terroristiche dallo Stato inglese.

Cosa rimane quindi di una retorica volta alla rassegna autoassolutoria del male peggiore, sempre identificato con gli altri? Nemmeno la reductio ad hitlerum, quella specie di argomento linguistico capace di ribaltare ogni discussione, alterando il peso degli eventi a proprio vantaggio, può, alla lunga, costituire un parametro utile per puntellare una presunta superiorità.

La storia, oltre la facciata manichea a cui ci hanno abituati, ha molti chiaroscuri e zone grigie, che insegnano molto più degli slogan con cui siamo abituati ad assumerla.

Pochi sanno che la marina israeliana probabilmente nacque con il benestare di Mussolini a Santa Marinella e Civitavecchia nel 1934 e che l’accordo dell’Haavara tra Germania nazista e ebrei tedeschi sionisti portò alla migrazione in Palestina di 60.000 ebrei sino al 1939 (link).

Al di là dei facili steccati in cui ognuno vede il bene nel proprio gruppo e il male in quello altrui, se c’è stato un germe positivo nato dalle ceneri della guerra è proprio quello di cercare di trovare valori sempre più condivisi e universali con cui misurare gli atti.

Il famoso processo di Norimberga lo si può leggere, infatti, o come un’umiliazione verso i vinti, spogliati della dignità morale, oppure come il perseguimento di principi che non vengono meno neanche tra le atrocità della guerra, il famoso jus ad bellum.

Polemos e democrazia

La differenza qualitativa tra la contemporaneità e il passato rievocato nella sua ciclica brutalità, sta appunto nella decisione di voler perseguire dei valori che non appartengono a nessuno, ma che si vuole sempre più condivisi.

In questo contesto, lo slogan «esportare la democrazia» può suonare invitante, per la carica ipocrita di mascherare le vecchie guerre di conquista (in cui magari ad una colonizzazione economica si accompagna quella ideologica): fare i propri interessi, in fondo, è il nucleo di ogni politica. Eppure, per chi ha imparato a non darla per scontata, l’accostamento non può che suonare come un ossimoro.

Se, lo vediamo dagli organi di informazione, la propaganda è monocorde, univisuale, incapace di scorgere le ragioni dell’altro, ripiegata su sé stessa; dall’altro, il pluralismo ci spinge al confronto, al comparare le posizioni, a trovare punti di incontro.

Da questo punto di vista la democrazia può essere una sintesi di conflitto controllato, in cui, dal contraddittorio, si può arrivare a valutare quale delle ipotesi e posizioni resiste alle ragioni e confutazioni dell’altro. Il controllo, le regole, la procedura, è fondamentale per far sì che il dialogo non si trasformi nella supremazia del più forte, e prevalga quindi la forza del diritto e non il diritto della forza.

Se c’è un’accezione positiva nella frase di Eraclito è certamente questa, a patto però di conservare come una reliquia quel discernimento tra bene e male, che solo può evitare la perdita di ogni confine e limite.

Individuare il bene negli attori (ovviamente i propri) e non nella «sceneggiatura» è un grave errore dalle conseguenze anche grottesche.

Il «popolo della luce»

Netanyahu, sì sempre lui, sempre nel suo discorso alla nazione, ha parlato di «popolo della luce» che lui (sì proprio lui) rappresenta contro l’Asse del male: una lettura manichea che già tanto male ha fatto in questo secolo, e che sembra voler alimentare nuove guerre infinite, e evidentemente redditizie (anche a livello politico).

La risoluzione per un cessate il fuoco umanitario duraturo a Gaza, votata all’Onu, a proposito di democrazia, ha poi visto l’opposizione di Israele, Usa e altri «campioni», 13 «nazioni» (tra cui Micronesia, Papua, Nuova Guinea) contro le 120 nazioni a favore.

Questo a dimostrare che, se c’è un principio di espansione dei valori democratici, si attua non per «imposizione» (altro ossimoro), ma per «attrazione». In questo senso autonominarsi modelli democratici, implica una responsabilità: un comportamento ipocrita, non coerente, addirittura contraddittorio o di insanabile negazione dei valori professati, può infatti dare alibi per le peggiori nefandezze.

C’è quindi un discorso morale da fare, un discorso che sembra non avere più cittadinanza.

Se infatti la democrazia permette l’ingentilirsi dei rapporti sociali e internazionali, non più basati sulla forza, la guerra, al contrario, imbestialisce.

Armando Mantuano

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