PRESIDENZIALI BRASILE

Al ballottaggio i due
candidati «peggiori»

 

Il primo turno delle elezioni presidenziali in Brasile è andato secondo quanto previsto nei sondaggi, anche se un tale risultato sarebbe stato impensabile soltanto pochi mesi fa. L’ex militare Jair Bolsonaro ha sfiorato la vittoria al primo turno, arrivando al 46,03% (49.275.358 voti), mentre al secondo posto il candidato del Partito dei Lavoratori Fernando Haddad non è andato altre il 29,28% (31.341.839 voti). Nettamente staccati gli altri: terzo il socialista Ciro Gomes (Pdt) con il 12,47% (13.344.074 voti), quarto l’ex governatore di San Paolo Geraldo Alckmin (Psdb) con il 4,76% (5.096.277 voti) e molto al di sotto delle sue potenzialità, addirittura ottava, l’ambientalista Marina Silva, con l’1,00% (1.069.538 voti).

Al ballottaggio del 28 ottobre andranno così, a nostro avviso, i due candidati peggiori. Vediamo perché.

Il Pt ha impostato tutta la campagna elettorale sull’assioma «Haddad è Lula». L’ex presidente, impossibilitato a candidarsi in quanto in prigione per corruzione, l’ha indicato all’ultimo momento utile come suo sostituto, e gli ha affiancato come vice una giovane esponente del Partito Comunista.

In passato Haddad è stato un buon ministro dell’Educazione nel suo primo governo e poi dal 2012 al 2016 un modesto sindaco di San Paolo, non confermato dagli elettori per il secondo mandato. In questa campagna ha detto poco di suo, caratterizzandosi anche letteralmente come «maschera» del leader indiscusso della sinistra brasiliana.

Egli rappresenta la continuità con i 13 anni di governo del Partito dei Lavoratori. Una sinistra che su un piatto della bilancia può vantare la positività delle misure di contrasto alla povertà, mentre sull’altro ha il peso della responsabilità di essere al centro di un sistema corruttivo estesissimo; del fallimento della presidenza Dilma Roussef, destituita con impeachment nel 2016 e ora candidata al Senato bocciata dagli elettori; dell’occupazione partitica delle aziende di Stato; dell’atteggiamento benevole verso il fenomeno delle occupazioni di appartamenti privati e fazende.

Non mancano poi tutte le costanti ideologiche della vecchia sinistra come l’estremizzazione del «politicamente corretto» (nei media, nell’istruzione, e perfino nella censura delle fiabe popolari); o il rifiuto all’estradizione in Italia di un terrorista ritenuto «politicamente affine» come Cesare Battisti.

Infine il Pt in questi ultimi anni non ha avuto niente di convincente da dire sull’argomento che maggiormente assilla i brasiliani: il problema della sicurezza.

Inutile dire che questo è il cavallo di battaglia del candidato più votato al primo turno. «Il Brasile non può andare avanti così» è stata una frase ripetuta frequentemente durante la campagna elettorale da vasti strati della popolazione, di ogni estrazione, che credono che Bolsonaro «possa riportare ordine nel Paese».

L’ex militare, nostalgico della dittatura, con le sue parole d’ordine «sopra le righe» ha finito così nel catalizzare «la rabbia e la paura» di milioni di brasiliani. La sua campagna elettorale è stata condotta senza un partito strutturato, senza grandi esperti di marketing politico, con pochi minuti a disposizione in Tv. Ma le sue esternazioni hanno viaggiato sulle reti sociali e nei passa-parola della gente. Dopo il suo accoltellamento il 6 settembre non è neppure più apparso in manifestazioni pubbliche, ma la sua candidatura ha continuato a crescere fino a raccogliere domenica quell’enorme 46,03% dei consensi.

Per governare un Paese di 207 milioni di abitanti basterà gridare contro il «porcilaio» dei burocrati e dei politicanti insediati a Brasilia? Ripetere che «i criminali in Brasile hanno più diritti delle vittime»? Oppure liquidare la critica alle femministe definendole «donne che non si radono le ascelle»?

Che presidente potrà essere senza una squadra di Governo collaudata, senza un programma chiaro in economia? Potendo contare soltanto su di un centinaio di neoeletti nei due rami del parlamento?

Alcuni commentatori hanno impropriamente definito Bolsonaro «fascista», ma egli non ha nulla in comune con i movimenti politici degni di questo nome. Non ha una visione del mondo, un sistema di valori consolidato, un partito politico strutturato che ne sia portatore. Può essere meglio definito come un «reazionario da bar» che rischia di trovarsi nelle mani un compito molto al di sopra delle sue capacità.

Dare il proprio voto a Bolsonaro o Haddad come presidente sarà dunque decidersi per il «mare minore». Vista dall’Italia, la scelta che attende il popolo brasiliano il prossimo 28 ottobre, non appare certo facile. Bolsonaro, dall’alto dei consensi ricevuti, parte favorito, mentre Haddad già guarda al possibile sostegno degli altri tre candidati per la presidenza del Paese, minimizzati dall’avvenuta polarizzazione dell’elettorato. A nostro avviso erano tutti e tre «migliori» dei due contendenti approdati al secondo turno: il collaudato governatore del centrodestra Geraldo Alckmin, la possibile alternativa di centrosinistra al Pt Ciro Gomes, e soprattutto la «verde» Marina Silva, attenta ai temi sociali e ambientali ma al tempo stesso difensore della famiglia e dei valori cristiani.

Vincenzo Fratta
con Umberto Simone Salvati

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