A COLLOQUIO CON SIMONE MORI

Vincere con coraggio
contro tutte le paure

 

«Un tramonto, un’alba, un abbraccio dei propri cari, nulla è uguale a sé stesso, mai nessuno uguale all’altro, tutti importanti, belli, significativi, perché vissuti, ogni singolo momento». A parlare un ragazzo di poco più di quaranta anni, che ne ha passate di ogni, in particolare negli ultimi cinque anni. Simone Mori: al secolo giornalista, scrittore, comunicatore, timido ma non troppo, impacciato dalla vita che ha disordinato la sua vita per poi riordinarla. Oggi assertore del sorriso, convinto assolutista del bello ogni giorno, nel colore, nel sapore, nel calore e nell’emozione di un singolo istante, ogni singolo istante. Parlare con lui è come chiacchierare con un divo, come lui stesso scherzosamente si definisce. Con la differenza, che lui lo è davvero.

Un gigante che cammina tra piccoli uomini, che li aiuta a comprendere, che dice sempre la sua schermendosi, senza mai alzare la voce, ma con un filo dal tono basso e con un sorriso abbozzato redarguisce ma non sentenzia.

Se non fosse Simone, creerebbe quasi soggezione. Ma è Simone, e si racconta con magistrale elementarità, con semplice informalità, con #tenaciaetenerezza. Disserta sulla vita e sugli aspetti marginali delle preoccupazioni umane, dei finti problemi e di quante soluzioni ci siano date, ma pone un veto deciso ad una parola abusata dai media moderni, soprattutto in Italia: Malasanità.

«Una parola che non mi trova d’accordo. – afferma – Io parlerei piuttosto di una buonissima sanità in Italia. Ho conosciuto tanti professionisti del settore medico sanitario che lavorano nonostante, a volte, le strutture stesse non siano idonee, con abnegazione, dedizione, attenzione e vicinanza al paziente. Ma a Tor Vergata ho vissuto i reparti di ematologia e infettivologia come le autentiche eccellenze che sono; in un periodo del mio percorso, ad esempio, avevo il sistema immunitario completamente azzerato e non ho mai avuto il minimo problema per questo, cosciente di essere costantemente seguito da medici e personale all’altezza.

Mi piace considerarmi un positivo, uno che vede un po’ gli ospedali con lo sguardo di Patch Adams, o del professor Mandelli, per rimanere da noi, nel nostro Paese: sorridere non costa nulla, farlo alla vita aiuta molto. Avere un approccio negativo con determinate patologie ti fa fare più fatica, invece occorre tenacia nella lotta e tenerezza con il prossimo.

Un grazie non costa niente, ma vale tanto. Ho sempre ringraziato chiunque stesse intorno a me, medico o infermiere, per qualsiasi cosa facessero. Perché sentivo che era giusto farlo, perché avevano un pensiero per me, perché mi sorridevano e mi aiutavano».

Un momento difficile Simone lo ricorda con rispetto: «L’unico momento down è stato quando ho capito che avrei passato 35 giorni da solo, chiuso in una stanza ermetica e sterile. Cinque minuti dopo che si è chiusa quella porta ho pensato: e adesso? Ero solo. Ma ho avuto poco tempo per riflettere, perché poi ho iniziato una lunga lotta.

Una battaglia che è diventata una esperienza, finita con un miracolo, stando a quanto mi dicono i medici (sorride). Poi mi è complicato affrontare il ricordo, i volti e le parole di chi oggi non c’è più, che mi è stato accanto condividendo un percorso difficile con me e che non ce l’ha fatta».

Tanti gli angeli nel percorso di Simone Mori: «Io non ho mai incontrato medici o infermieri che non meritassero di essere chiamati Angeli. Hanno sempre dato tutti il 100% per me. E a loro sono grato sempre. Bisogna avere fiducia nei propri medici, e nei reparti che dirigono. Approcciarsi con empatia al personale e a chi è lì per aiutarti. Aiuta chi deve aiutare te.

Ad esempio nel reparto trapianti ad alto rischio ho sempre notato l’estrema pulizia dei luoghi, tutti. Non potevano entrare agenti patogeni esterni, ne ero certo, lo percepivo per la sicurezza nell’igiene che c’era nel reparto. I visitatori non potevano entrare se non con mascherine, copri capelli e copri scarpe, e soltanto uno alla volta. Mi fidavo di chi avevo intorno a me, erano professionisti, erano angeli, sono angeli».

Il momento più bello è ben impresso nella memoria, con tanto di data e ora: «Senza dubbio l’arrivo del midollo da un donatore tedesco, un ragazzo appena ventenne ma già con la coscienza di quanto sia importante donare. Era il 29 marzo del 2017, le ore 17.30 circa, quando il dottor Meconi, insieme a Marcello, l’infermiere, sono entrati in stanza e hanno iniziato la procedura con la sacca di midollo che avevano in mano. Il dottore mi ha spiegato, nel momento in cui iniziava a defluire verso di me, che il midollo si preparava la strada, andava a scovare dove annidarsi per poi proliferare.

Io lo guardavo speranzoso mentre mi veniva incontro, e gli dicevo: fai il tuo dovere! Se dovessi consigliare una buona azione, direi di donare il midollo. Certo, è un po’ più doloroso che non donare il sangue, ma ti dà soddisfazione dopo. Un po’ come andare a correre dopo 22 anni di inattività. Il giorno dopo sei preda di dolori dovuti all’acido lattico nei muscoli, e pensi: ma chi me lo ha fatto fare? Per la donazione di midollo, invece, pensi: che bello che l’ho fatto».

Oggi la vita per Simone assume un significato diverso, più pregno, emozionante: «Le cose prima banali oggi sono belle. Un tramonto non è mai uguale all’altro, un abbraccio, un’alba, sono momenti di vita diversi, per questo portatori di emozioni differenti. L’importante è non lasciare niente di non detto, anche a rischio di far rimanere male qualcuno. L’oggi è l’unica certezza di cui essere consapevoli, per cui vale la pena lottare, sorridere, vivere».

Simone invita tutti a guardare sempre avanti, anche se lui uno sguardo alle sue spalle lo getta volentieri: «Guardandomi indietro ho la chiara consapevolezza di aver vinto una sfida davvero grande. Come dicono i miei medici il merito di questa vittoria va iniquamente distribuito: il 20% alla medicina, l’80% a me. E dunque me li prendo tutti questi meriti.

Nella vita occorre coraggio, con quello si affrontano tutte le paure. La mia più grande, in questa società e in questo particolare momento storico è la mancanza di solidarietà. L’indifferenza mi fa paura più della violenza. Ma non per gli stranieri o per gli estranei, quanto per i vicini di casa. Aprire una porta o una finestra di casa e notare indifferenza negli altri… è la morte sociale. Ecco, questo fa paura».

Certo, per uno che ha vinto una guerra contro un linfoma di Hodgkin al quarto stadio, sentire parlare di paura diventa quasi incredibile. Ma Simone, lui sì, è incredibile. E tutto gli è concesso.

Carmine D’Urso

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