C’è la vicenda in sé stessa, di cui ormai si sta parlando molto e sulla quale anche giornali certamente non ostili, come Il Corriere della Sera o La Repubblica, non mancano di sottolineare le tantissime ombre: Soumahoro che sapeva o non sapeva, e quanto, di ciò che veniva combinato di illegale nella cooperativa della suocera e in ciò che le si muoveva intorno.
Aboubakar Soumahoro che disponeva di quantità di denaro non esigue, tanto è vero che insieme alla moglie si è comprato una casa non propriamente economica. La stessa moglie che spendeva e spandeva, sfoggiando abbigliamento da diva e, tra l’altro, borse di Vuitton.
La candidatura con Bonelli e Fratoianni
In parallelo, c’è l’avventata decisione dell’Alleanza Verdi e Sinistra di candidarlo alla Camera, dove poi è stato eletto, sbandierando la scelta come se fosse la quintessenza di una politica totalmente imperniata sulla difesa delle parti più deboli della società: in particolare i cosiddetti migranti, visto che lo stesso Soumahoro è nato in Costa d’Avorio ed è giunto in Italia solo nel 1999, quando ormai aveva 19 anni.
Anche qui: cosa sapevano o non sapevano i capifila dei due partiti(ni) che ne hanno fatto il loro alfiere, ossia Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni?
Fino a questo punto, però, si rimane all’interno di ciò che restituiscono le cronache. E quindi nei limiti del caso specifico. Che senza dubbio è grave e rilevante di per sé – e vedremo quali sviluppi giudiziari finirà con l’avere – ma che dovrebbe portare anche a riflessioni di carattere più generale.
La presunzione di bontà
Torniamo sui cosiddetti migranti. Che assai spesso sono immigrati clandestini. O «irregolari», come si usa dire nel solito annacquamento propagandistico che attenua le parole per nascondere la realtà delle cose.
La versione di gran lunga prevalente, a livello mediatico, è che dietro ogni critica alla loro affluenza in massa si celino dei pregiudizi. Di natura razzista. Di un razzismo che è impastato di cinismo e disumanità, come se essere contrari a un’accettazione fatalistica e pressoché indiscriminata equivalesse a essere favorevoli ai naufragi e alle morti in mare.
Come se la difesa dei propri confini nazionali fosse un insopportabile atto di arroganza e di egoismo, anziché una delle esigenze connaturate al concetto stesso di nazione.
Ciò che non viene mai preso in considerazione, all’opposto, è che anche nei sostenitori dell’accoglienza sempre-e-comunque alligni un poderoso pregiudizio.
I preconcetti della sinistra
Un pregiudizio che porta a dare per scontato che essere vittime di qualcosa sia di per sé una garanzia, o giù di là, di caratteristiche personali positive. Che diventeranno gli ottimi presupposti di un pacifico e proficuo inserimento nelle società di approdo.
L’idea, che degenera in preconcetto, è che provenire da Paesi poveri, o variamente afflitti da carestie, guerre e regimi dispotici, costituisca di per sé un fattore di miglioramento interiore. O addirittura di purificazione.
Avendo molto sofferto, e magari fin dalla nascita, si è divenuti più comprensivi, operosi, altruisti. Pronti a fare del proprio meglio non solo nei confronti di chi viene da un passato simile, ma anche nei riguardi delle popolazioni in cui si andranno a inserire. A integrare, per usare un’altra delle paroline magiche del gergo progressista.
Dove stia il limite di una visione così generalizzata e idilliaca è semplice. E dovrebbe essere ovvio.
In questa «presunzione di bontà» non c’è niente di verificato. E neppure di argomentato. È solo un’ipotesi appesa al nulla. Che però, a forza di essere assunta come una verità indiscutibile, va assumendo la forza di un dogma.
Per chi la viva in buonafede è la proiezione di un desiderio. Ingenuo e infondato, ma se non altro sincero.
Al contrario, è una mistificazione deliberata da parte di chi invece strumentalizza gli accadimenti. Facendo leva sulla simpatia istintiva suscitata dalle sofferenze altrui (tanto più se di donne e bambini) per realizzare i suoi veri disegni: che sono quelli di un’accelerata trasformazione, e di un profondo stravolgimento, delle etnie occidentali.
Gerardo Valentini