IL VELO ISLAMICO

Precetto religioso
o rinuncia alla femminilità

Nei giorni scorsi la presidente dell’Associazione dei Giovani musulmani d’Italia Nadia Bouzekri si era fortemente lamentata per essere stata invitata a togliersi velo e a rimanere con le braccia scoperte, durante i controlli al varco di frontiera dell’aeroporto di Orio al Serio in provincia di Bergamo, dove era andata per prendere un volo diretto a Bruxelles.

Al di là del singolo episodio il problema dell’uso del velo nelle nostre città resta un problema aperto. Vediamo perché. Si fa un gran parlare dell’emancipazione della donna: tutti sono d’accordo, salvo poi negare quello che ci passa davanti quotidianamente. Una donna velata rinuncia comunque a se stessa. Vi si nasconde e nasconde così la propria femminilità. Il velo è l’espressione di un concetto poco religioso: donna-moglie-madre di privata proprietà. Che si chiami burqa, chador o niqab poco importa. La quantità di copertura non riduce il grado di riduzione ad una schiavitù più o meno volontaria ma sempre influenzata da interpretazioni pseudoreligiose, quindi calate dall’alto come una Legge.

La donna dietro al velo si nega agli occhi degli altri e rinuncia ad essere persona: rinuncia a relazionarsi, a farsi vedere, a dichiarare di esistere. E’ gravissimo accettare che, in nome di una religione, tra l’altro interpretata in un modo così discutibile, una donna rinneghi se stessa. Vi deve essere libertà di professione ma non può esistere la libertà di annichilire, rinnegare la presenza stessa di un intero genere solo perché femminile.

Se storicamente è esistito, in certi ambienti, in certi periodi storici, ora nel mondo occidentale ciò non può essere. Non è tollerabile. Anche perché le restrizioni «religiose» colpiscono solo la donna e dall’età fertile. Come possiamo far integrare le persone anzi interi popoli se si consente di maltrattare, non rispettando, un genere a discapito dell’altro? È di esperienza comune notare per la strada una famiglia dove le donne sono velate, salvo poi notare che tutti i membri maschili siano vestiti all’occidentale. Se questa è parità dei sessi… Questo ovviamente non è giusto. Vi è un enorme errore di fondo, assumerlo è accettare una presunta inferiorità del genere femminile. La donna sotto al chador, al burqa o al niqab viene nascosta e privata di qualsivoglia contatto con l’esterno. Non è libera di muoversi e nemmeno di dichiarare che abbia caldo, si immagini come d’estate tutti quegli strati di stoffa sicuramente siano una tortura.

L’emancipazione femminile non si può misurare certo con i centimetri di pelle scoperta. Ma sicuramente non si ottiene coprendo, censurando addirittura le mani, che sempre più spesso sono coperte da guanti, anche in agosto. Accettare queste aberrazioni non porta ad integrare le persone, le relega in un gruppo, in una cerchia, in una comunità separata da quella della società civile locale. Integrare vuol dire comprendere ed accettare reciprocamente. Rispettare gli usi ed i costumi ma anche intervenire su pratiche che non sono accettabili qui ed ora. Oppure dovremmo accettare la poligamia, l’infibulazione, il taglio di un arto al ladro o la lapidazione dell’adultera (mentre all’adultero si riservano solo una decina di scudisciate)?

La cassazione ha dato legittimità al travisamento per giustificato motivo quando questo sia religioso. Invece dovremo prendere ad esempio alcuni sindaci che hanno emesso ordinanze che vietano l’uso dei veli poiché in effetti coprono e travisano i volti e rendono difficile se non impossibile identificare le persone. Dovremmo far pressione affinché queste misure vengano adottate a livello nazionale. Si studi insomma una norma che tuteli la sicurezza nazionale e salvaguardi l’universo femminile.

Lino Rialti

Nella foto di copertina: donne con il niqab alla prese con un piatto di spaghetti
Nella foto sopra: la presidente dell’Associazione dei Giovani musulmani d’Italia Nadia Bouzekri

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