CINEMA: W DJANGO!

Un dvd per riscoprire
Anthony Steffen. Mio padre

Un dvd per riscoprire Anthony Steffen

 

Fu grazie a Quentin Tarantino che potei apprezzare per la prima volta mio padre come Anthony Steffen sul grande schermo, nel Settembre del 2007, quando fui invitato al Festival di Venezia per presentare «Una lunga fila di Croci» di Sergio Garrone, durante una speciale retrospettiva western che il regista e scrittore americano aveva voluto per spararci in un sol colpo tutte le sue opere più amate del genere.

Antonio de Teffé, in arte Anthony Steffen, re indiscusso ma quasi dimenticato del cinema western europeo con ben 27 titoli da protagonista assoluto, era morto qualche anno prima, a Rio de Janeiro, abbattuto da un male assurdo, attorniato da una solitudine spettacolare, quel tipo di sipario che spesso cala come contrappasso redentivo su coloro che hanno battuto troppo i pezzi alla gloria del mondo per poi passare con affettata disinvoltura al lato oscuro.

Tarantino aveva ristabilito a Venezia Anthony Steffen tra gli indimenticabili, lo aveva prepotentemente strappato a una critica che lo aveva offeso, deluso e troppo ridimensionato agli occhi del pubblico, perché artista non impegnato negli anni dell’impegno assoluto, e lo aveva adagiato su quel trono ideale che gli spettava a rigor di logica. Questo riposizionamento tarantiniano mio padre non se lo poté mai godere, ed ebbe sempre la strana sensazione di non aver fatto abbastanza perché mai premiato dalla critica che osanna e dunque vergine di riconoscimenti intellettuali.

Sergio Garrone e Manuel de Teffé
Sergio Garrone e Manuel de Teffé

Il suo orgoglio fu dunque perfettamente sabotato, ma questo fu in fin dei conti paradossalmente anche un bene: l’uomo, era infatti nella vita privata anche più duro di ciò che rappresentava sullo schermo, e la critica che non conferiva coccarde gli diede anche la possibilità di rimanere con i piedi per terra e coltivare il suo lato più umano.

Quando nel 2007 al Festival di Venezia feci le veci di mio padre e presentai grazie a Quentin il capolavoro assoluto di Sergio Garrone, fu lo stesso Sergio Garrone che mi abbracciò come un padre. Emozioni e colt: quell’estate bastò la semplice scelta editoriale di Tarantino per riabilitare in sol colpo le intere carriere di Steffen e di Garrone, grande regista dimenticato adesso novantenne che ha appena riabbracciato il genio americano durante la prima romana di «Once Upon a Time in Hollywood» (Nemo propheta in patria sotto steroidi).

A più di dieci anni dal tributo di Venezia, finalmente, in collaborazione la francese Artus film, ho la gioia di annunciare che siamo riusciti a realizzare per merito del disegnatore Curd Riedel che ha curato tutti i contenuti, uno specialissimo cofanetto tributo a Anthony Steffen con W Django!, di Edward Muller, rimasterizzato in 2K: Blu Ray, Dvd + un libretto di 96 pagine che ripercorre la parabola artistica e umana di un grande del cinema italiano, che dopo 67 film ha deciso di ritirarsi per non bruciarsi le retine sotto i riflettori e divenire cieco come il suo amico Totò. Una mia lunga intervista molto particolare, traccia un profilo inedito di Antonio de Teffé/Anthony Steffen impreziosito da aneddoti surreali e foto mai pubblicate, una su tutti quelle del matrimonio con mia madre raggiante.

Il libro annuncia anche l’inizio di un progetto al quale sto lavorando con grande emozione come regista e scrittore, dal titolo «Django begins», che narra le indimenticabili avventure di Anthony Steffen in Almeria nel 1968, film che ho rivelato per primi a Castellari e Garrone, ancora in fibrillazione per il progetto.

Nato all’ambasciata brasiliana a Roma di Piazza Navona, Antonio de Teffé aveva per caso intrapreso la carriera cinematografica come «runner» in Ladri di Biciclette del grande De Sica. Siccome era un bello e la madre si era giocata a poker un Castello a Castiglion della Pescaia, e il padre Manuel de Teffé mio omonimo, era un campione automobilistico brasiliano che non aveva molto tempo per suo figlio, papà fece fulcro sulla sua bellezza virile per entrare nel mondo dello spettacolo e marchiarlo con la sua presenza di vir, come si definiva lui.

Il Western gli arrivò come un gancio dal cielo quando, a metà anni 60, durante la crisi, compreso il vizio italico di saltare sul carro del vincitore senza sporcarsi le mani, Antonio de Teffé si cambiò il nome in Athony Steffen, si mise in testa un cappellaccio e si fece fare da mia madre una foto in bianco e nero da cowboy per poi spedirla a tutte le produzioni romane.

Moriva il brillante Antonio e sorgeva uno spietato Anthony, spariva de Teffé e montava in sella Steffen. Succubi di un onomatopea altisonante che doveva nascondere una misteriosa fama stellare, tutte le produzioni lo chiamarono immediatamente e papà iniziò a girare un western dopo l’altro: talmente duro, che volevano solo lui, talmente ingenuflesso, che doveva avere sempre ragione a prescindere, tant’è che Leone gli preferì alla fine Eastwood.

Antonella Caramazza La Lomia e Antonio de Teffé

Per la carriera, lasciò mia madre e si consacrò all’arte, ma scoprì 20 dopo di aver fatto qualche errore micidiale che rimpianse sino alla fine: il finale di «La La Land», è la copia carbone della storia dei miei genitori. Tuttavia, mia madre lo aveva perdonato e, grazie al balsamo di quel perdono immeritato, mio padre conservò una sua originale lucidità umana.

Mamma, il giorno che seppe che il suo amore stava per morire a Rio de Janeiro circondato dal nulla, nonostante fosse 15 anni più giovane, invecchiò istantaneamente di altri 15 anni e decise di morire anche lei lasciandosi andare qualche anno dopo, «come corpo morto cade». «In realtà sono una donna felice» mi disse sul letto al Policlinico Gemelli, «Perché ho sposato l’uomo che amavo e ho quattro splendidi figli: ho avuto tutto».

La nascita al cielo di mio padre segnò una settimana indimenticabile. Quando papà ci urlò per telefono che stava male, arrivai a Rio appena in tempo con mio fratello Luiz, giunto qualche giorno prima in avanscoperta per vedere se era tutto vero: Django il Bastardo stava realmente su una sedia a rotelle, la maschera d’ossigeno e respiri alla Darth Vader, tanta rabbia nel cuore e persone infide e caricaturali attorno.

Come piccoli Skywalker provammo a combattere ugualmente contro la sua cattiveria imperfetta, facendoci strada a colpi di machete nel suo passato ribelle. Feci arrivare un prete carioca per l’estrema unzione e, una volta blindatagli l’anima, gli mettemmo in grembo un laptop collegato a internet per fargli una sorpresa inaudita.

«Papà, ascoltami bene: questo è Google. So che non sai cos’è, Luiz te l’ha spiegato tante volte a Roma: tu scrivi qui sopra il tuo nome d’arte. Qui papà. Poi avrai una sorpresa. Non te lo ricordi?» «Oh! Manuel! Certo che ricordo chi sono! Papà è solo stanco!»

Antonio de Teffé, ancora inviperito per aver suo malgrado subito l’estrema unzione e per un computer portatile bollente sulle ginocchia, si chinò su quello schermo luminoso e batté lentamente Anthony Steffen, poi si bloccò, per un attimo il suo respiro si interruppe e gli occhi gli divennero quelli di un bambino di 6 anni divorato dalla meraviglia.

I film di Anthony Steffen

Google gli stava caricando davanti il suo intero passato di una vita artistica: i poster di tutti i suoi film, uno ad uno, tradotti in tutte le lingue del mondo, perfino in giapponese e finlandese, prendevano vita sotto il suo sguardo sbalordito: Una bara per lo sceriffo (1965), Perché uccidi ancora? (1965), Sette dollari sul Rosso (1966), Pochi dollari per Django (1966), Mille dollari sul nero (1966), Ringo il volto della vendetta (1967), Killer Kid (1967), Un treno per Durango (1967), Gentleman Joe, uccidi (1967), Il pistolero segnato da Dio (1968), I morti non si contano (1968), Una lunga fila di croci (1968), Il suo nome gridava vendetta (1968), Uno straniero a Paso Bravo, (1968), Diango il bastardo (1969), Garringo (1969), Arizona si scatenò e li fece fuori tutti(1970), Arriva Sabata (1970), Un uomo chiamato Apocalisse Joe (1970), Shango la pistola infallibile (1970), W Django (1971), Lo credevano uno stinco di Santo (1972), Tequila (1973)…

«Ho fatto tutto questo? Anche in Giapponese? Guardate il poster di Django il Bastardo in giapponese! Che fico… Vorrei chiamare Garrone. Ma forse è morto, meglio di no che poi mi mette tristezza. Sergio Garrone era un grande ma chi se lo ricorderà. Ah, e i preti qui non devono più mettere piede. Dicono cose strane».

Papà passò un pomeriggio intero guardare e riguardarsi tutti i poster, migliaia, divenendo sempre più buono in viso, fino a ritrasformarsi definitivamente nell’Antonio che conobbe mamma. E noi lo ricordiamo così: riunite le forze rimaste, guardò me e mio fratello Luiz formulando le ultime sue parole sensate mentre allungava le braccia dal letto, in alto, verso i nostri visi: «Amori miei».

Sono passati quasi 15 anni da quel Giugno del 2004, e adesso spuntano nella mia vita gli amici che lo hanno amato davvero, persone come l’artista francese Curd Riedel primo promotore del Blu Ray tributo, i mitici registi italiani amati da Tarantino come Enzo Castellari e Sergio Garrone e molti altri.

Persone che me lo raccontano con gli occhi di chi lo ha conosciuto veramente, lontani da quella critica che Tarantino ha voluto criticare così elegantemente in «Once Upon a time in Hollywood» attraverso un sottilissimo dialogo in macchina tra Brad Pitt e Di Caprio, uno scambio di battute quasi per gli addetti ai lavori che si interpreta esattamente al contrario e che suona più o meno così:

Pitt: È un bel po’ che non faccio la controfigura a tempo pieno e per come la vedo io, andare a Roma a girare dei film non è quella gran condanna a morte che a quanto pare tu pensi che sia. Di Caprio: Andiamo, hai mai visto uno dei loro western? Sono orrendi! È una farsa totale! Pitt: Sì? È quanti ne hai visti, uno? Di Caprio: Abbastanza, d’accordo? A nessuno piacciono gli spaghetti western…».

E voi? Quanti ne avete visti?

Manuel de Teffé

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