MARIO LENTANO, ENEA

L’ultimo dei Troiani
il primo dei Romani

Enea, l'ultimo dei troiani il primo dei Romani

 

Enea il guerriero troiano sopravvissuto alla distruzione della città, da personaggio tutto sommato minore in Omero, diviene l’eroe nazionale Romano reso immortale dal poema di Virgilio. Ma il mito del figlio del pastore Anchise e della dea Afrodite, non nasce con l’Iliade e non si esaurisce con l’Eneide, come racconta Mario Lentano nel suo Enea. L’ultimo dei Troiani il primo dei Romani, in libreria per Salerno Editrice.

Enea, l'ultimo dei troiani il primo dei RomaniParlano di Enea molte opere precedenti e successive ai capolavori di Omero e ancor più numerose sono le opere scritte nelle centinaia di anni intercorsi tra la stesura dei poemi omerici e il capolavoro di Virgilio.

Mario Lentano nel suo libro passa in rassegna tutte le versioni che riguardano Enea, non mancando di avvertire che raccontare la vita di un personaggio del mito non è come scrivere la biografia di un imperatore come Augusto o di un grande generale romano come Scipione l’Africano. In questo caso, invece che trarre dalle fonti la versione meglio documentata e più certa, è opportuno che il biografo esplori tutte le varianti, anche le più marginali, «cercando di capire a quale progetti culturali, strategie politiche o scelte letterarie possano essere riferite».

Nelle fonti antiche si possono trovare molteplici Enea. Ci sono varianti sulla sua fanciullezza, sul suo ruolo durante la guerra come comandante dei Dardani, ramo cadetto imparentato con la famiglia regnante a Troia, nonché sul suo difficile rapporto con il re Priamo.

In alcuni poemi si adombra che l’eroe si accorda con i greci o addirittura tradisce la sua gente pur di salvarsi dal sacco della città in fiamme.

A prendere di mira Enea è, ad esempio, il focoso polemista cristiano Tertulliano, che nel suo «I Pagani» (II-III secolo d.C.) riprende il motivo del tradimento dell’eroe per colpire una delle figure più rappresentative della religione e della cultura tradizionale romana.

In alcune varianti «minori» troviamo difformità sulle modalità della fine del padre Anchise oppure leggiamo che Enea resta in Asia e non approda sulle coste del Lazio. Ce ne sono perfino alcune che vogliono gli Achei sconfitti e Troia mai caduta.

La fuga da Troia in fiamme

La parte preponderante del libro di Mario Lentano approfondisce, e non potrebbe essere diversamente, l’Enea cantato e reso immortale da Virgilio. I versi dell’Eneide ci narrano dell’eroe, destato da Ettore apparsogli in sogno e poi spronato dalla madre Afrodite, mentre contende palmo a palmo lo spazio urbano agli Achei, che stanno facendo strage dentro la città in fiamme e poi, prima di essere sopraffatto, porta in salvo famiglia e compagni per intraprendere il viaggio verso il destino che gli è stato annunciato.

Sono a tutti note le raffigurazioni di Enea, con sulle spalle il vecchio Anchise che regge in mano i penati, gli dèi protettori di Troia, il piccolo Ascanio per mano e la dolce Creusa che segue a qualche passo di distanza, ma il cui destino è di perire nel corso della fuga.

Dopo un lungo e avventuroso viaggio, la perdita del padre e di molti compagni, Enea sbarcherà nel Lazio, dove i Troiani troveranno alleati e avversari che dovranno combattere. Il figlio di Enea Ascanio, edificherà la citta di Lavinio e darà inizio ad una discendenza che arriverà fino a Romolo e Remo, fondatori di Roma. Dall’altro suo nome Iulo si suole far discendere la gens Iulia, a cui appartengono Cesare ed Augusto.

Mario Lentano spiega come Virgilio abbia «corretto» con una più precisa linea del tempo le versioni più antiche che narravano della fondazione di Roma – risalenti a circa centocinquant’anni prima dell’età Augustea – che indicavano la madre dei due gemelli Rea Silvia, direttamente come figlia o nipote di Enea.

Le conoscenze dell’epoca in cui l’Eneide prese forma erano già in grado di datare la distruzione di Troia alla fine del XII secolo a.C., mentre la fondazione di Roma risale alla metà del VIII secolo. Uno iato di poco più di tre secoli che il poeta assorbe facendo parlare direttamente Giove, il padre degli déi: «Ed il giovane Ascanio, che ora è chiamato anche Iulo (…) trenta gran giri degli anni, volgendosi i mesi, al comando compirà, e quindi il regno trasferirà da Lavinio e munirà Alba Longa con grande potenza di mura. Qui per trecento anni interi, sotto la stirpe di Ettore si regnerà, finché Ilia, sacerdotessa e regina, genererà, concepita da Marte, una prole gemella. Poi, fiero in fulvo mantello di lupa (avrà per nutrice), Romolo erediterà quella gente, fondando mavorzie mura: e dal proprio nome darà loro nome ‘Romani’».

Didone tra Creusa e Lavinia

Nelle fonti antiche non mancano anche le varianti che attengono alla vita sentimentale di Enea, attribuendogli altre relazioni oltre alle tre donne il cui destino si intreccia con quello dell’eroe: la moglie troiana Creusa, madre di Ascanio, l’amante Didone regina di Cartagine, e la moglie italica Lavinia.

Il personaggio femminile che occupa maggior spazio nell’Eneide è Didone, alla quale Virgilio dedica l’intero quarto capitolo del poema. La regina è vedova ed assillata da nobili pretendenti. Accoglie benevolmente i Troiani approdati sulla costa nord-africana e presto si innamora del loro capo. Enea ricambia l’amore della donna e si comporta come suo consorte provvedendo alle necessità difensive della città.

Sembra aver scordato che il destino deciso per lui dagli déi è quello di raggiungere l’Italia per fondare «una città sacra e mirabile» e dare origine ad una stirpe che in seguito «signoreggerà sull’Oriente e l’Occidente».

Ma quando Mercurio, il messaggero alato di Giove, plana dal cielo a rammentargli il suo dovere, Enea sembra risvegliarsi da un lungo sonno e, avvertiti i compagni, si appresa a lasciare velocemente Cartagine.

La reazione di Didone è irruenta come la sua passione, il colloquio d’addio è brusco e doloroso. La regina si rende conto che Enea non cambierà idea, lo maledice e sviene tra le braccia delle sue ancelle. Dopo la sua partenza si uccide.

Il pio Enea

Se Enea avesse potuto scegliere «a suo piacimento» cosa fare della sua esistenza forse sarebbe rimasto a Cartagine a regnare insieme a Didone. Ma è un eroe e pertanto adempie al suo dovere.

Il suo eroismo è diverso da quello di un Ettore e di un Achille. Gli eroi omerici – spiega Mario Lentano – «anche quando combattono in difesa della collettività cui appartengono hanno di mira anzitutto un obiettivo di gloria individuale, la difesa del proprio onore e la promozione della propria fama».

L’eroismo di Enea, risponde invece ai dettami della tradizione e della cultura romana, che prevede «la costante subordinazione di spinte e desideri individualistici alle superiori esigenze della collettività, della patria, della grandezza di Roma».

Al biografo di Enea, professore di lingua e letteratura latina all’università di Siena, non sfugge il particolare che Virgilio proprio nei versi che narrano dell’abbandono di Didone usi per Enea l’aggettivo «pio».

Per i romani pietas non indicava infatti una persona «pietosa», «compassionevole» ma apparteneva al dominio del sacro, designava lo speciale rapporto in cui l’uomo romano stava in primo luogo con le divinità, poi con lo Stato.

«Di fronte agli dèi – scrive il filosofo tradizionalista Julius Evola – si trattava di un atteggiamento di calma, di dignitosa venerazione: sentimento di appartenenza, e, nel contempo, di rispetto, di memore riferimento, anche di dovere e di adesione, come potenziamento dello stesso sentimento suscitato dalla figura severa del pater familias».

Il pio Enea è dunque l’eroe che riconosce il luogo che gli è proprio e che deve mantenere in un ordine superiore, divino e umano ad un tempo.

Vincenzo Fratta

 

 

Mario Lentano
Enea

Salerno Editrice, pp.234

 

 

 

I LUOGHI DI ENEA
Sulla sabbia di Torvajanica dove sbarcò Enea del 5 gennaio 2021

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