TEMPO DI PASQUA

Il processo a Gesù come un moderno «true crime»

Processo a Gesù. Il Sinedrio porta Gesù davanti al Prefetto romano della Giudea Ponzio Pilato

 

Il processo a Gesù è forse il titolo più accattivante che un avvocato possa leggere. Si tratta del giudizio più famoso della storia, quello che l’ha cambiata per sempre e i cui contorni hanno prodotto innumerevoli contrasti e polemiche.

Processo a Gesù. Le accuse di Caifa contro GesùBasti pensare all’ accusa generalizzata di deicidio, messa in correlazione con l’antisemitismo biologico del XX secolo e respinta dal Magistero cattolico con l’approfondimento del Concilio Vaticano II (dichiarazione Nostra Aetate).

Proprio partendo dai versi del Vangelo di Matteo (cap. 27): «E tutto il popolo rispose: Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli», molti esegeti, di fronte alla difficoltà di superare le secche di uno stigma generalizzato, hanno preferito parlare di interpolazione mendace e estranea alla trama evangelica.

Le intenzioni del Sinedrio

In realtà, la risposta dei «capi del popolo» è coerente con una ricostruzione giuridica delle vicende. Un taglio di analisi, forse originale, ma non certo fuori contesto, rispetto ai fatti storici collegati alla crocifissione di Gesù.

Si deve permettere innanzitutto che il Sinedrio, dopo la resurrezione di Lazzaro, decide di «fare fuori» Gesù.

L’uccisione viene giustificata dalla paura di sconvolgimenti a danno di «tutta la nazione» (per cui è bene che muoia un solo uomo).

Per arrivare a questo obiettivo, in maniera «legale», devono approfittare della presenza a Gerusalemme di due persone: Gesù e il Prefetto romano della Giudea, coincidenza che si vanificherà dopo la Pasqua.

La segnalazione di Giuda durante la notte, il coinvolgimento di tutte le figure istituzionali, l’udienza con Pilato all’alba, quando lo stesso riceveva, per poter concludere la «pratica» prima del tramonto, sono funzionali allo scopo.

I fatti giuridicamente rilevanti

Ripercorrendo gli eventi come fosse un true crime moderno: Gesù viene «segnalato» da un agente infiltrato (Giuda Iscariota), preso in consegna dalle forze di polizia religiosa locale, consegnato per un primo interrogatorio sommario (da Anna) e poi per un’istruttoria più completa (da Caifa) che non porta a testimonianze univoche (indispensabili sia per il diritto ebraico che per quello romano, unus testis, nullus testis), e che si conclude, invece, con la confessione di Gesù di essere il Messia, il Figlio di Dio e il Figlio dell’uomo che siede alla destra di Dio, e che d’ora in poi vedranno sulle nubi del cielo.

A seguito di ciò, dopo il gesto rituale di chiusura delle indagini de «lo stracciarsi le vesti» (o, secondo un’altra interpretazione, a chiusura del processo religioso), viene rinviato a giudizio presso Ponzio Pilato, che chiede gli atti di accusa al Sinedrio (per un reato plurioffensivo e plurigiurisdizionale: bestemmia per gli ebrei, e lesa maestà, per i romani, fattispecie che comprendeva la rivolta, la sedizione, il mancato rispetto dell’autorità imperiale).

Gesù o Barabba

Pilato (in rappresentanza dell’imperatore) si mette a interrogare l’imputato (che si ritiene l’inviato di Dio), senza trovare in lui alcuna colpa.

Ora, invece di fare discendere da ciò una sentenza di assoluzione, Pilato cerca l’accondiscendenza dell’accusa.

La ferma opposizione di questa, lo porta a provare soluzioni alternative, come approfittare dell’usanza di liberare un prigioniero per la Pasqua per far muovere la folla a favore di Gesù (pare ingannato anche dal vociferare a favore di Barabba, che in realtà si chiamava Gesù Barabba, e che può averlo confuso), oppure punire duramente il prigioniero per soddisfare le esigenze di «giustizia» dell’accusa.

Quando tutto ciò risulta inutile, Pilato, in maniera rituale e dichiarata, si tira fuori da un giudizio che, invece, a lui spettava, riducendo il suo ruolo a mero exequatur (illegittimo, e senza vaglio delibativo, per valutare l’efficacia e la correttezza procedimentale del processo religioso), della decisione del Sinedrio, lasciando la responsabilità a quest’ultimo.

Perché Pilato se ne lava le mani

Per capire le ragioni di questa evidente omissione di esercitare le prerogative di funzionario giudicante, da parte di Pilato, si deve valutare la situazione politica su cui fa leva il Sinedrio per ottenere la «sentenza» favorevole.

Pilato era stato spesso in contrasto col potere religioso ebraico e anche con Erode Antipa, sollecitato dal primo per avere un «parere autorevole» (una sorta di esame peritale) della questione Gesù Messia, e dopo il quale il quale i due si riconciliano.

La paura di Pilato è quella di avere contro il popolo ebraico e, quindi, di alimentare, con la sua condotta (a favore o contro l’imputato), rivolte e sedizioni.

Quando il Sinedrio gli dice «non abbiamo altro re che Cesare» crea una grande complicità con Pilato, che vuole essere rassicurato anche sulle conseguenze di mettere a morte una persona innocente. Il problema non è di coscienza, ma di garanzia che la morte di quest’uomo non ridondi a danno dell’autorità imperiale (e del suo ruolo soprattutto), anche in futuro.

La rassicurazione, quindi, deve valere per ogni suddito, e anche per il tempo a venire. Per questo il Sinedrio, che era riuscito a far sentire la sua voce davanti al Pretorio, si fa portavoce di tutti i presenti e non (non certo tutti gli ebrei, essendo tali anche gli apostoli e i discepoli di Gesù).

Non c’è ragione per considerare falsa quella risposta, nonostante i rischi di un insegnamento non focalizzato sul perdono espresso in Croce da Gesù con il versare proprio il «Suo Sangue».

Il processo si conclude con la sentenza scritta sul titolo della Croce: Gesù Nazareno, Re dei Giudei. Invano i Sinedriti chiedono di correggerlo in «che dice di essere». Evidentemente, per l’offensività della condotta contestata a Gesù, non basta l’autoproclamazione, ma una situazione di fatto capace di comportare un pericolo concreto.

Il nesso tra religione, profezia, sacrificio e processo, funzione giurisdizionale e sacerdotale, non potrebbe essere più stretto.

La riapertura del processo

Diego Fabbri, Processo a GesùNel 1955 un autore, Dario Fabbri, portò in scena proprio un’opera chiamata «Processo a Gesù». L’impulso gli venne da un fatto storico avvenuto il 25 aprile del 1933 a Gerusalemme, dove alcuni giuristi ebrei anglosassoni riaprirono, per un debito di coscienza, il processo a Gesù, concludendo per la sua innocenza e l’irregolarità del procedimento.

Effettivamente, oltre a quello condotto da Pilato (che ritiene Gesù innocente, e per il diritto romano non c’erano reati a lui ascrivibili), il processo del Sinedrio avrebbe violato norme, successivamente codificate, per evitare processi sommari o che fossero solo un simulacro di questi (come il riunirsi di notte in numero troppo ridotto, esprimere il verdetto contestualmente all’ accusa e non in un giorno diverso).

L’evidenza della «bestemmia» per cui è stato condannato Gesù, poi, non è derivata tanto dal dichiarare di essere il Messia, ma dal contrasto di questa pretesa legittima di ogni membro del popolo ebraico ― non priva di un profilo speculativo, per cui si sarebbe almeno dovuto approfondire ― con le condizioni materiali in cui versava Gesù, che non collimavano con le aspettative e (soprattutto) il pregiudizio dei farisei.

Armando Mantuano *avvocato

 

 

Tra i diversi libri che affrontano il tema del Processo a Gesù, oltre al testo di Dario Fabbri, è di agevole lettura il volume dedicato a Gesù de I Grandi processi della Storia edito da Mondadori.

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