LAVORATORI E IMPRESE

La «partecipazione»
muove i primi passi

 

Se Carlo Messina, attuale Amministratore Delegato di Intesa San Paolo, avesse affermato una ventina d’anni or sono che «crede nelle sue persone e nella loro capacità» aggiungendo che la Banca sta realizzando un piano di azionariato diffuso rivolto a tutti i dipendenti del gruppo, non avrebbe resistito più di una settimana sulla poltronissima che oggi occupa.

E’ accaduto l’incredibile: quell’Idea partecipativa che era uno dei piatti forti di un’intera parte politica ben individuata, ora entra a pieno titolo nei programmi degli imprenditori: i dipendenti/azionisti sono la vera novità di questi ultimi anni, o mesi, o settimane, chissà forse se ne sono accorti ieri l’altro.

Come si fa a non essere ironici? Mentre quasi tutto il mondo occidentale scopriva nei fatti che l’azionariato diffuso tra i dipendenti non solo rappresenta una forma indiretta di autofinanziamento ma è uno strumento partecipativo di coinvolgimento dei lavoratori, in Italia a invocare «la partecipazione» eravamo in pochi.

Ricordo bene i disincanti dei sindacalisti prezzolati, i sorrisetti superficiali dei banchieri, l’aria spazientita dei governanti che non volevano perder tempo con le nostre sciocchezze. Già perché l’idea che i lavoratori fossero umanizzati e partecipassero almeno in forma azionaria alle imprese era secondo loro irrealizzabile e, soprattutto, contraddiceva lo slogan politico su cui era impostata la politica in quegli anni: lotta di classe, all’impresa il rischio ai lavoratori il diritto; che gli imprenditori facciano la loro parte e non pretendano di coinvolgere chi lavora, eccetera.

Erano anni figli della visione sessantottesca del conflitto sociale. Noi italiani eravamo fermi, gli altri si accorgevano che distribuire azioni è utile, conveniente e, aggiungerei, giusto. Il 69% delle aziende inglesi lo fa. In Germania, almeno il 3% del capitale di investimento è in mano a dipendenti/azionisti, recenti studi dimostrano che le aziende dove è rilevante la presenza dei dipendenti nell’azionariato diffuso, hanno tassi di produttività e di performance migliori dei rispettivi competitors.

Due considerazioni sono d’obbligo. Certo possedere azioni è cosa assai diversa della partecipazione nei CdA e non c’entra nulla la cogestione che riguarda scelte politiche ben determinate e si ispira ad altri ragionamenti.

Ma, come spesso accade nelle società complesse che viviamo, sono le valutazioni d’ordine economico che determinano quelle scelte. In altri termini, se un banchiere importante annuncia che vuole riservare pacchetti di azioni ai suoi collaboratori non lo fa certo per qualche «ripensamento» ideologico, ma per un mero calcolo di opportunità e di convenienza aziendale.

Tanto basta, anche se i «principii» sono parzialmente soddisfatti, perché mi appare chiaro un percorso: non si arriva alla cogestione per riconoscimento ma per diritto. La via è questa, non ce ne sono altre.

Credo, infatti, che quando le azioni in mano ai dipendenti saranno un numero tale da determinare gli orientamenti e le strategie generali dell’impresa, lasciando ai manager il loro lavoro di direzione, paradossalmente si realizzerà nel mercato dei diritti del lavoro quell’equità e giustizia che per anni non sono stati realizzati.

Alfredo Moretti

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