di Adriano Minardi Ruspi
Sono tanti i paradossi generati dalle dichiarazioni in Parlamento di Giorgia Meloni col richiamo alla storia ed ai contenuti del Manifesto di Ventotene, molti e tutti evidenti perché ancora una volta chiamano in causa elementi divenuti costitutivi delle modalità con cui la sinistra italiana affronta e valuta temi di carattere storico o anche solo contenutistici.
Il primo paradosso è l’aver affrontato e reagito alle citazioni della Presidente Meloni con una gazzarra da stadio arrivata fin sotto i banchi del Governo, una levata di scudi che avrebbe sinceramente meritato ben altre ragioni e occasioni di sfogo, a tratti sguaiata e offensiva oltre che impropria.
Dunque, un primo elemento rivelatore dell’ormai conclamata isteria comportamentale con la quale da quelle parti si affrontano temi legati all’attualità o anche di carattere più generale come occasioni di ricordo o rievocazione storico culturale di qualunque tipo.
L’ossessione di ritenersi i «guardiani» delle idee
Anche in questa occasione abbiamo assistito all’ormai consueto diluvio di sdegno, eterne richieste di dimissioni dei reprobi, di riletture e abiure del passato, come se, paradossalmente, l’affrontare qualunque tema comportasse inevitabilmente la necessità di un’autorizzazione preventiva o il parere favorevole di una sinistra, ormai auto investita del diritto di rappresentare una sorta di «fonte battesimale» degli argomenti affrontati nel dibattito pubblico.
Una sorta di giudizio e sdoganamento preventivo su ciò che può esser detto o meno, sulla bontà di un argomento da mettere in discussione, a pena di censura preventiva o, peggio ancora, di polemica astiosa e rancorosa, spesso e volentieri puramente offensiva.
Il punto fondamentale, tuttavia, è comprendere le ragioni per le quali una sinistra progressista e democratica, agganciata al treno dell’europeismo più sfrenato e integralista, refrattaria a qualunque critica, fa riemergere oggi dalla storia un reperto archeologico, seppure di primaria grandezza, quale è il Manifesto di Ventotene.
Se letto e compreso fino in fondo, il libro di Altiero Spinelli e Ernesto Rossi rappresenta un’idea di Europa e di unificazione europea forse non del tutto confliggente ma sicuramente poco complementare rispetto a quella, d’impronta cattolica e liberal democratica, che ha ispirato il processo di costruzione europea di cui oggi la sinistra si fa paladina e scudo contro le altrui critiche.
Il Manifesto come un volantino pubblicitario
Ciò nonostante, nella manifestazione delle mille anime della sinistra pro-Europe di una settimana fa a Roma, se ne distribuiscono copie a mo’ di volantino pubblicitario rivendicandone il carattere d’ispirazione e attualizzandone i contenuti.
Il paradosso e il corto circuito è che si tratta di un reperto archeologico di indubbio valore storico e documentale che però mirava a disegnare un’Europa dominata da una sorta di oligarchia tecno burocratica che ridimensionava pressoché del tutto l’idea di partecipazione democratica dei popoli nel processo di costruzione, tutta basata sul presupposto che il popolo fosse da educare ancor prima di poter determinare il proprio futuro perché politicamente minorato ed incapace di autodeterminarsi nella libertà.
Un’idea di costruzione europea che avrebbe annullato pressoché del tutto le identità e le competenze degli Stati nazionali, dominata da un internazionalismo che traeva ispirazione dal modello d’internazionalismo socialista.
Siamo davvero sicuri che questo super Stato d’impronta sovietica possa rappresentare oggi un punto di riferimento per il domani europeo?
Va ricordato che non è mai stato in discussione, anche nell’intervento della Presidente Meloni, il valore simbolico del precedente o la lettura del contesto in cui quel Manifesto venne scritto nel 1941 da un gruppo di intellettuali al confino.
Non rappresenta tuttavia un crimine ricordare, a proposito di contesto, che venne alla luce, paradossalmente, in un momento in cui l’Unione sovietica, culla dell’internazionalismo socialista e punto di riferimento ancorché critico di alcuni degli autori del manifesto, era ancora legata da un’alleanza di ferro con la Germania nazionalsocialista, che aveva già prodotto l’aggressione russa alla Polonia ed ai paesi baltici, infranta proprio nel giugno del 1941 dalla Germania con l’attacco alla Russia.
Tra paradossi e contraddizioni
Il paradosso, quindi, del sogno europeista di una rivoluzione internazionalista che avrebbe dovuto combattere il dispotismo e la dittatura fascista e nazionalsocialista, ma si incarnava nel rapporto con una potenza in quel momento storico alleata del nazionalsocialismo stesso…
Ma questo è solo uno dei tanti paradossi nell’uso politico della storia che fa la sinistra, una sorta di cortocircuito permanente dell’interpretazione che consente di cogliere una parte per il tutto, ragionando sul contesto per ciò che fa comodo ed eludendo le contraddizioni.
Sono pronti a usare questo strumento nella battaglia politica odierna, ignorando il contesto originale, per accusare di oltraggio chi lo interpreta diversamente o ne ricorda i contenuti contraddittori rispetto alla dialettica democratica.
Questo paradosso evidenzia come la sinistra abbia costruito e alimentato un’idea di Europa senza riconoscerne le contraddizioni, riducendo alcuni aspetti quantomeno essenziali a dettagli minori.
Nel corso degli anni, il contenuto è stato sottoposto a critiche e revisioni, anche da parte di ambienti vicini alla sinistra. Autori come Luca Ricolfi, Massimo Cacciari ed Ernesto Galli della Loggia, certamente non pregiudizialmente ostili alla sinistra, hanno evidenziato e denunciato gli aspetti illiberali di diverse parti del documento.
Valgono poco quindi le ricostruzioni forzate e tardive che se ne fanno oggi a sinistra circoscrivendone l’impeto e la forza dialettica nel tentativo di spiegare come ad esempio il riferimento alla proprietà privata, da abolire o meno a seconda del giudizio degli «ottimati», fosse parziale e riferito solo ad alcune tipologie di beni.
Un modello totalitario
Il punto fondamentale evidenziato nei brani letti da Giorgia Meloni è la natura tendenzialmente totalitaria del modello europeo auspicato dal Manifesto di Ventotene, a cui si tendeva attraverso un processo rivoluzionario guidato da un’oligarchia tecno burocratica.
Il popolo guidato da una casta di intellettuali che avrebbe dovuto educarlo a forme di democrazia progressiva che rimandano ad un’idea di stato socialista, d’ispirazione quindi quantomeno non democratica almeno nel significato che noi oggi attribuiamo al termine.
Una costruzione europea, in ogni caso, diversa rispetto a quella che è stata poi costruita.
Non a caso, il Partito comunista in Italia e le componenti influenzate dal pensiero azionista espressero la loro opposizione ai primi atti di costituzione del Mercato comune (1957-1958), che segnarono l’inizio del processo di costruzione europea. Consideravano questi atti come una sovrastruttura funzionale all’economia capitalista.
Il Manifesto di Ventotene risulta dunque un riferimento storico del tutto fuori contesto, che si configura come una semplice esposizione di figurine idealizzate e immutabili, accettate senza mai essere messe in discussione ma vissute con adesione acritica.
Aggrapparsi ad un documento ormai sostanzialmente musealizzato rivela l’incapacità di comprendere il presente, accompagnata da urli, strepiti, dichiarazioni roboanti e manifestazioni di piazza convocate per le dichiarazioni altrui.
Nulla dal punto di vista contenutistico, solo show mediatici affidati a professionisti dell’intrattenimento, nessuna analisi delle contraddizioni, solo rifiuti aprioristici e musealizzazione del passato.
Questo è lo stato dell’arte, dalle parti della sinistra.
Adriano Minardi Ruspi