Alla luce dell’avviso di garanzia, in realtà una comunicazione di trasmissione della denuncia al Tribunale dei Ministri, inviato alla Premier Meloni, al Sottosegretario Mantovano, al Ministro Piantedosi e al Ministro Nordio, per il rilascio e il trasferimento del capo della polizia giudiziaria libica Almasri, è opportuno un approfondimento giuridico, anche in relazione ai comunicati dell’Associazione nazionale magistrati (Anm) e al clima avvelenato tra politica e magistratura.
In un precedente contributo si era analizzato il caso focalizzandosi sugli obblighi del Governo con la Corte Penale Internazionale, recependo l’ordinanza come interprete non solo autorevole, ma sostanzialmente corretto della disciplina in materia.
I comunicati dell’Anm
L’Associazione Nazionale Magistrati, in un recente comunicato ha «sentenziato» l’esclusiva responsabilità del Ministro della Giustizia sulla scarcerazione di Almasri, in quanto Nordio sarebbe stato «il solo deputato a domandare all’autorità giudiziaria una misura coercitiva», facendo esplicito riferimento alle motivazioni dell’ordinanza della Corte d’Appello di Roma.
Non si pretende di esaurire una questione giuridica così complessa, la cui interpretazione peraltro potrebbe sfavorire anche in futuro la nostra cooperazione internazionale, ma si deve dare atto di diffuse recensioni critiche all’ordinanza de quo, che diversificano le responsabilità in questione.
In particolare, l’interpretazione data dalla Corte d’Appello di Roma, pur suggestiva, appare poco convincente sotto diversi punti di vista.
Due sono le questioni sollevate dalle riviste di settore, tutte concordi nel sottolineare l’anomalia della scarcerazione:
- La mancata applicazione dell’art. 716 del Codice di procedura civile.
- L’esclusione che la richiesta di misura cautelare debba essere preceduta dall’interlocuzione del Ministro della Giustizia.
L’arresto da parte della polizia giudiziaria
Il provvedimento della Corte d’Appello di Roma in commento ricostruisce concretamente l’arresto della polizia giudiziaria, richiamando l’art. 716 Cpc, nonostante la comunicazione fosse stata trasmessa ex art. 11 237/12 e art. 59 Statuto di Roma, deducendo l’erroneità della procedura perché differente rispetto a quella in tema di misura cautelare prevista proprio dalla Legge 20 dicembre 2012 n.237, artt. 11 e 14.
Questa Legge è infatti legge speciale rispetto alla disciplina codicistica, e applicabile in prima battuta in materia di cooperazione con la Corte penale internazionale (Cpi).
L’ordinanza è consapevole di un articolo (il 3 nella Legge n.237) che esplicitamente rinvia al Codice di procedura penale per tutto quanto ivi non previsto, ma viene ritenuto non applicabile l’istituto dell’art. 716 Cpc in quanto non previsto dalla legge richiamata riferita alla Corte penale internazionale.
Bisogna infatti precisare che mentre gli art. 11 e 14 disciplinano la misura cautelare, l’art. 716 Cpc riguarda l’arresto della polizia giudiziaria, in una fase che si potrebbe dire precautelare.
Ciò è confermato anche dalla sequenzialità dello stesso art. 716 c.p.p. che prevede la misura cautelare successiva all’arresto e alla sua convalida.
Secondo la Corte d’Appello di Roma, la normativa nazionale avrebbe privato la cooperazione internazionale con la Cpi di uno strumento non solo utile, ma prevedibilissimo: si pensi all’arresto di persone ad uno scalo, esempio classico di intercettazione di un ricercato.
Se si pensi poi alla difficoltà di rendere effettiva la deterrenza della Corte Internazionale, per la possibilità degli incriminati di sottrarsi evitando i paesi a «rischio», si potrebbe concludere che una simile previsione violerebbe gli obblighi di cooperazione assunti.
Il rinvio dell’art. 3 della Legge 237/2012
La presunta violazione dell’art. 13 della Costituzione, riguardo la necessaria previsione positiva di una legge che giustifichi la detenzione, è scongiurata proprio dall’art. 3 della Legge che esplicitamente afferma un richiamo generale al codice di procedura penale e specialmente le norme del titolo II (tra cui è inserito l’art. 716 del Codice proceduta penale), «se non diversamente disposto dalla presente legge e dallo statuto», e «fatta salva l’osservanza delle forme espressamente richieste dalla Corte penale internazionale che non siano contrarie ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano».
Questo rinvio applica il noto brocardo Ubi lex voluit dixit, che alla Corte d’Appello di Roma appariva preclusivo al mantenimento della carcerazione.
La gravità delle fattispecie criminose oggetto della cooperazione internazionale non permetterebbe infatti di abdicare ad uno strumento tanto comune e tanto efficace nell’assicurare gli incriminati alla giustizia.
La predisposizione di strumenti nazionali con una soglia di garanzia minore rispetto alle generali previsioni del paese sarebbe pertanto, in netta contraddizione con i principi dello Statuto di Roma, art. 88: «Gli Stati parti si adoperano per predisporre nel loro ordinamento nazionale, procedure appropriate per realizzare tutte le forme di cooperazione indicate nel presente capitolo».
Il ruolo del Ministro della Giustizia
Come detto l’Anm imputa all’inerzia del Ministro della Giustizia l’esito della liberazione di Almasri.
Tuttavia ci sono buone ragioni per dubitare che il suo ruolo sia necessario anche nell’applicazione della misura cautelare.
Al di là della convalida dell’arresto che sarebbe stata sempre possibile, con un’ermeneutica orientata ad una reale cooperazione, nelle norme richiamate riguardo la misura cautelare ai fini della consegna, non si fa espresso riferimento ad un’informativa che deve provenire esclusivamente dal Ministro.
Viene semplicemente specificato che il Procuratore generale, ricevuti gli atti, chiede alla medesima corte d’appello l’applicazione della misura della custodia cautelare nei confronti della persona della quale è richiesta la consegna.
Nell’ordinanza della Corte d’Appello di Roma si presume che gli atti debbano essere ricevuti dal Ministro in virtù dell’art. 2 della Legge 237/2013: «I rapporti di cooperazione tra lo Stato italiano e la Corte penale internazionale sono curati in via esclusiva dal Ministro della giustizia, al quale compete di ricevere le richieste provenienti dalla Corte e di darvi seguito».
Certamente quella dizione «in via esclusiva» ha creato dubbi interpretativi.
Tuttavia, è proprio la Corte Penale ad aver dichiarato di aver trasmesso gli atti nei canali designati da ogni Stato (il Ministero della Giustizia per l’Italia) e, allo stesso tempo, di aver fatto una richiesta all’Interpol che ha diramato un’allerta rossa (come nel caso del cittadino svizzero iraniano), e lo ha fatto a norma dello Statuto, ossia una richiesta completa, come dettagliata dall’art. 91 dello Statuto di Roma.
La polizia italiana ha provveduto all’arresto proprio sulla base di quanto diramato dall’Interpol; pertanto escludere l’applicabilità dell’art. 716 cpp, applicabile per le estradizioni in altri Stati, oppure prevedere un’ingiustificata nuova trasmissione da parte del Ministro, sarebbe in violazione dello stesso Statuto (Art. 91 co 2 c): «tuttavia le esigenze dello Stato richiesto non devono essere più onerose in questo caso rispetto alle richieste d’estradizione presentate in applicazione di trattati o di intese concluse fra lo Stato richiesto ed altri Stati e dovrebbero anzi, se possibile, esserlo di meno, in considerazione del carattere particolare della Corte».
Il ruolo del Ministro della Giustizia sarebbe allora solo quello di raccordo esclusivo con la Corte, nel senso di interlocuzioni, non solo a seguito di richieste di consegna, avendo obbligo di darvi seguito, nello specifico anche concordando le modalità di trasferimento alla Corte Penale Internazionale (ex art. 13), ma anche informando preventivamente la Corte delle speciali esigenze della sua legislazione.
Riguardo quest’ultimo aspetto, il fatto che la Corte penale fosse sorpresa della particolare applicazione, da parte dello Stato italiano, della L 237, datata 2012, legge che si presume non ignota alla Corte Penale Internazionale, fa presumere un’interpretazione aberrante della stessa.
La corresponsabilità dei Giudici
È ‘ interessante come anche la rivista di magistratura democratica commenti l’ordinanza della Corte d’Appello di Roma ritenendola non attendibile nell’interpretazione delle norme.
Se questa analisi sembra quindi unanime, il peso di questa sugli esiti del caso Almasri viene definito dalla stessa rivista una «pagliuzza» rispetto alla «trave» rappresentata dall’inerzia del Ministro.
Ora, questo commento presuppone, però, il senno di poi dell’avvenuta scarcerazione, esito che nello stesso articolo è ritenuto non conforme alla normativa.
L’«inerzia» del Ministro Nordio sarebbe quindi colpevole solo se fosse stato consapevole dell’impossibilità assoluta del Procuratore di convalidare l’arresto e/o di applicare la misura cautelare.
Anche se potesse essere esclusa la seconda (e ci sono dubbi interpretativi), per unanime commento sarebbe certa la possibilità di convalidare l’arresto.
Il comunicato del Ministero della giustizia del 21 gennaio che riferisce che il Ministro, alla luce del complesso carteggio, «sta valutando la trasmissione formale della richiesta della Cpi al Procuratore generale di Roma, ai sensi dell’articolo 4 della legge 237 del 2012», non si pone poi quale automatica fonte di responsabilità, per inerzia.
Infatti, anche se il Ministro deve assicurare che «l’esecuzione avvenga in tempi rapidi e con le modalità dovute», (art. 2), si prevede la possibilità di interlocuzioni con la Corte, potendo presentare a questa «atti e richieste», un coordinamento con i Ministri e altre istituzioni (art. 2), e, addirittura (art. 5), la sospensione delle richieste di indagine qualora possono compromettere la «sicurezza nazionale».
Non sappiamo quale valutazione richiedesse la richiesta della Cpi, tuttavia si può presumere che non ci fossero margini di discrezionalità nella consegna dell’incriminato.
La Corte d’Appello, infatti, secondo l’art. 13, «può pronunciare sentenza con la quale dichiara che non sussistono le condizioni per la consegna solo se ricorre una delle seguenti ipotesi:
- non è stato emesso dalla Corte penale internazionale un provvedimento restrittivo della libertà personale o una sentenza definitiva di condanna;
- non vi è corrispondenza tra l’identità della persona richiesta e quella della persona oggetto della procedura di consegna;
- la richiesta contiene disposizioni contrarie ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico dello Stato;
- per lo stesso fatto e nei confronti della stessa persona è stata pronunciata nello Stato italiano sentenza irrevocabile, fatto salvo quanto stabilito nell’articolo 89, paragrafo 2, dello statuto».
L’art. 11 che è rubricato «misura cautelare ai fini della consegna», non lascia presumere discrezionalità del Procuratore, né che possa non avere legittimità la richiesta di misura cautelare se gli atti non gli sono consegnati proprio dal Ministro. La relativa procedura di applicazione della misura cautelare sembra infatti interamente giurisdizionalizzata senza ingiustificabili interventi ab externo del potere esecutivo, ragionevoli solo qualora avesse potere di veto.
Il medesimo articolo, poi, prevede anche il ricorso per Cassazione in caso di applicazione della misura cautelare (senza sospensione della medesima), nonché la possibile richiesta della libertà provvisoria, dovendo sempre offrire adeguate garanzie di sicurezza in relazione al pericolo di fuga.
Sempre riguardo l’art. 11 della Legge 237/2012, il richiamo dell’art. 59 dello Statuto, fa presumere che la richiesta di misura cautelare sia comunque successiva all’arresto che deve avvenire senza indugio: «Lo Stato Parte che ha ricevuto una richiesta di fermo, o di arresto e di consegna prende immediatamente provvedimenti per fare arrestare la persona di cui trattasi».
Si ricorda che la comunicazione agli Uffici da parte della polizia giudiziaria che ha proceduto all’arresto è stata compiuta proprio ex art. 59 dello Statuto di Roma.
L’arresto, è quindi l’antecedente logico e necessario per una successiva misura cautelare.
Il bilanciamento degli interessi in gioco
Il bilanciamento degli interessi in gioco, considerato il rilievo del pericolo di fuga, scredita, poi, la legittimità di una scarcerazione, che avrebbe (ed ha) comportato anche una questione di sicurezza nazionale, con esiti di pericolo concreto mitigati da un’impossibile vigilanza dei Servizi, pervasivo e su ogni spostamento nel territorio nazionale.
Il tema della sicurezza, evocato nella stessa legge, quale causa sospensiva della richiesta di atti d’indagine (art. 5), è stato infatti oggetto della risposta al question time al Senato, e qualificato come ragione rispetto al trasferimento di Almasri, da parte del Ministro Piantedosi, evidentemente investito della pratica al momento della scarcerazione.
Le precisazioni che precedono non intendono escludere una responsabilità anche oggettiva del Ministro della Giustizia, nei confronti della Cpi, Ministro designato quale referente, coordinatore (degli altri Ministri) e interlocutore con la Corte Penale Internazionale, ma valutare la legittimità degli atti giurisdizionali e la causalità di questi nella liberazione, considerando che non c’era alcun divieto di espatrio ex art. 281 Cpp nei confronti del soggetto.
Certo, diverso è l’obbligo di rimpatrio dovuto a esigenze di sicurezza, provvedimento su cui è difficile fare una valutazione e che può portare a diverse congetture.
Personalmente ritengo che la difesa approntata dal Governo e anche dalla premier nel suo comunicato video a seguito dell’atto notificatole, riguardo la vicenda, non sia priva di ombre.
Lamentarsi dell’onerosità della richiesta pervenuta dalla Cpi, suggerendo chissà quali manovre politiche antagoniste, un copione che rischia poi di risultare logoro, promuove l’ipotesi di una volontaria sottrazione ai doveri istituzionali di cooperazione internazionale.
Ciò anche in virtù del generale screditamento delle Corti di Giustizia internazionale, e degli obblighi annessi, per cui si chiedono continue eccezioni ad personam, invocando «immunità» evidentemente escluse in caso di crimini di tal fatta (cfr. esclusione dell’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile degli altri Stati, secondo convenzione internazionale, in caso di crimini contro l’umanità, Corte d’Assise di Milano, Rocchelli/Markiv, riguardo l’uccisione del nostro fotoreporter in Ucraina).
La Cpi ha diramato un comunicato che ripercorre tutta la vicenda, e a mente dell’art. 87 dello Statuto, in caso «uno Stato Parte non aderisce ad una richiesta di cooperazione della Corte, diversamente da come previsto dal presente Statuto, impedendole in tal modo di esercitare le sue funzioni ed i suoi poteri in forza del presente Statuto, la Corte può prenderne atto ed investire del caso l’Assemblea degli Stati parti o il Consiglio di sicurezza se è stata adita da quest’ultimo».
Vedremo quindi gli sviluppi, ma, di là delle responsabilità istituzionali, rimane il fatto che una normativa non organica in tema di cooperazione internazionale, che si presta ad un esegesi contraddittoria, costituisce un grande vulnus e giustifica l’implementazione di un codice dei crimini internazionali, almeno in funzione di risistemazione e chiarificazione della materia.
Il Ministro della Giustizia potrebbe riprendere il discorso interrotto nella Commissione Crimini internazionali con la Relazione 2022.
Armando Mantuano *avvocato