Chi rompe paga, e i cocci sono… nostri. Il «chi», in questo caso, è il M5S: che dal suo incredibile, inesauribile catalogo degli orrori ne ha tirato fuori un altro e ha spinto Draghi alle dimissioni. Consegnate a Mattarella. Respinte da Mattarella.
Potenzialmente sarebbero soggette a ritiro, sulla base di una verifica parlamentare che è fissata per mercoledì prossimo. Più probabilmente sono destinate a rimanere tali.
Escludendo, tra l’altro, un reincarico al premier uscente, che a quanto risulta non ha nessuna intenzione di restare a Palazzo Chigi in una posizione indebolita e ancora più esposta agli attacchi di questo o quel partito.
D’altronde, benché disgraziata e riprovevole per mille e un motivo, questa litigiosità strisciante e insormontabile è tutt’altro che infondata. Che altro ci si dovrebbe aspettare, infatti, da una pseudo alleanza che in realtà è una coabitazione forzata e innaturale, tra soggetti diversi che non vedono l’ora di affossarsi l’un l’altro?
Le deboli fondamenta della Legislatura
La XVIII Legislatura è e resterà uno dei più orridi e artificiosi passaggi della nostra Repubblica. Il verdetto uscito dalle urne nel marzo 2018 è stato ignorato e tradito.
Il trionfo dei Cinque Stelle, la poderosa crescita della Lega, il crollo del Pd, avevano affermato a gran voce che il Paese voleva voltare pagina. Poi, con le giravolte del M5S e la solita regia del Quirinale, è andata come sappiamo.
Non si è affatto voltata pagina: si è ribaltato l’esito del voto. Riportando il Pd a quella posizione di vertice che gli elettori avevano cassato a larghissima maggioranza. Il popolo si era espresso. Il Potere se ne era infischiato. Stracatafottuto, come direbbe il Commissario Montalbano.
Alle urne. Senza se e senza ma
E ora? Ora, se non altro, che si vada dritti alle elezioni anticipate. Senza appellarsi alle solite, dolenti argomentazioni sulle conseguenze nefaste dell’instabilità che ne deriverebbe. Certamente nell’immediato. E abbastanza probabilmente anche in futuro.
Nell’immediato perché un governo a scartamento ridotto dovrebbe limitarsi, giocoforza, all’ordinaria amministrazione.
In futuro perché, nonostante l’annunciato exploit di Fratelli d’Italia, non è affatto sicuro che si arrivi a una maggioranza, presumibilmente di centrodestra, così coesa da esprimere un governo con la G maiuscola. Rapido nell’insediarsi. Nitido nel programma. Capace di restare in sella a lungo, con il supporto costante dei propri parlamentari.
La stabilità solo come punto di arrivo
Che queste ombre vi siano è indubbio. Ma la loro presenza non può e non deve bastare a sottrarsi al giudizio degli elettori. La stabilità non è un totem, al quale ci si può solo inchinare e al quale bisogna sacrificare la sovranità popolare. Che, per chi se lo fosse dimenticato, è la base irrinunciabile della democrazia. E lo rimane anche, o forse soprattutto, quando le sue indicazioni sono sgradite alle classi dirigenti. Quando sono in contrasto con i loro disegni, le loro trame, di dominio pressoché incontrastato.
La stabilità non è un dogma. Non è il punto di partenza, ma semmai quello di arrivo. E la stagione dei «tecnici» alla Mario Monti e alla Mario Draghi deve essere considerata/liquidata come un’anomalia eccezionale. Come un rimedio temporaneo e occasionale, ammesso che rimedio sia stato. Come il classico caso in cui il rimedio è peggiore del male, perché nasconde i veri termini del degrado politico e ne dilaziona la resa dei conti. E allora, di fronte a questo spaventoso groviglio di falsità e di colpi bassi, meglio finirla qui e tornare al voto.
Democrazia o messinscena
Anche se la nuova legge elettorale non c’è ancora. Anche se il voto non dà garanzie di ritrovata chiarezza.
La democrazia non è una formula magica. Soprattutto, non è e non deve essere una messinscena. In cui l’unico ruolo dei cittadini è controfirmare ciò che è stato già deciso dalle oligarchie, nazionali e sovrannazionali, che tirano i fili. E fingendo di impegnarsi per l’altisonante «bene comune» non fanno che rafforzare i loro «benefit fuori dal comune».
Andiamo a votare. Andiamoci al più presto. Per provare a ripulire il Parlamento e a renderlo meno ambiguo e inaffidabile.
Tra le tante incertezze, infatti, almeno una cosa è sicura: il M5S ne uscirà assai ridimensionato. Per non dire schiantato. Premiato nel 2013 e nel 2018 da un abbaglio collettivo, ottenuto con l’inganno, verrà finalmente riportato alla dimensione che merita. Una banda di parvenu che non può neanche lontanamente sognarsi di guidare l’Italia.
Gerardo Valentini