CORTO CIRCUITO POLITICO-GIUDIZIARIO /2

Gioco di sponda
sul caso Almasri

Caso Almasri. Il tragitto del viaggio in Europa del generale libico

 

Favoreggiamento per il caso Almasri: come dei delinquentelli qualsiasi che aiutano un criminale ricercato a sfuggire alla cattura. Peculato: come degli impiegatucci infedeli della pubblica amministrazione che usano la macchina di servizio per andarsene a fare la spesa.

Il generale librico Najeem Osema Almasri Habish, detto AlmasriL’assurdità balza all’occhio. Ed è così smaccata che sembra assurdo, a sua volta, doverla argomentare. Eppure, sono proprio questi due i reati ipotizzati a carico di Giorgia Meloni e di altri tre membri dell’Esecutivo, per la gestione del caso Almasri: il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, quello della Giustizia Carlo Nordio e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano.

A innescare il tutto è bastata l’iniziativa di un avvocato penalista, Luigi Li Gotti. Che, a suo dire indignato per l’espulsione del capo della polizia giudiziaria libica e per il suo rimpatrio a Tripoli con un aereo militare, ha presentato una formale denuncia alla Procura della Repubblica di Roma. La quale, di conseguenza, ha aperto un fascicolo e iscritto i sospetti nel registro degli indagati.

«L’ho fatto per dignità. Per me era insopportabile – ha dichiarato Li Gotti – che venissero dette una serie di menzogne, che un boia venisse restituito alla Libia con un aereo di stato per continuare a fare quel che faceva: torture, violenze sessuali, omicidi.»

Gran cosa, la dignità. Sentimento nobile, il fremito morale del privato cittadino che si scopre toccato, scosso, ferito da un atto di governo.

In paradiso no, ma qui sulla Terra…

Senonché, l’insigne avvocato Li Gotti annovera nel suo vasto curriculum professionale la difesa di svariati «pentiti di mafia», della rilevanza di Giovanni Brusca, Tommaso Buscetta e Gaspare Mutolo, e perciò non è esattamente un’educanda ignara delle cose del mondo.

Certo: i cosiddetti pentiti, o più propriamente i collaboratori di giustizia, o più brutalmente quelli che spesso sono solo dei voltagabbana che hanno venduto i loro complici in cambio di sconti di pena, sono previsti e tutelati dalla legge. Ma lo sono in forza dell’utilità generale che deriva dal loro trattamento particolare: particolare e, sul piano etico, assai discutibile. Per non dire ributtante.

Già. Nel cielo terso e purissimo della Morale con la M maiuscola talune scelte non hanno diritto di esistenza e appaiono persino impensabili.

Ma nella vita reale, in cui l’interesse collettivo prevale sul rigore astratto, le dinamiche sono assai meno limpide. Si favoriscono i «pentiti di mafia» perché ne deriva una contropartita. Si interagisce con i governi stranieri, ancorché deprecabili, nel quadro di rapporti complessi e asimmetrici: dove irrigidirsi equivale a isolarsi.

Dove ergersi a giudici inflessibili è un lusso che non ci si può permettere. O che quantomeno va valutato caso per caso.

Esatto: ci vuole un metro diverso

Confondere questi piani non è affatto una semplice ingenuità. È una distorsione cruciale che ha finalità precise: risucchiare nell’ambito del potere giudiziario delle decisioni che sono prettamente politiche.

Lo abbiamo già visto a più riprese. Al massimo grado con il processo Open Arms a carico di Matteo Salvini, quando un atto di contrasto all’immigrazione illegale è stato trattato, e stravolto, alla stregua di un sequestro di persona. Ma su scala ridotta, e tuttavia non meno strategica, si è verificato lo stesso sulla questione dei «Paesi sicuri».

Messe in minoranza nelle aule parlamentari ed escluse dal governo, a causa del voto popolare delle ultime elezioni, le forze ostili al centrodestra sono state costrette a sforzarsi di agire per altra via.

Da un lato quella mediatica, sia pure con l’artiglieria sempre più scarica della stampa amica e dei commentatori tv schierati a suo favore. Dall’altro, appunto, quella giudiziaria. Grazie ai tanti magistrati che condividono la visione progressista e che fatalmente la trasfondono nella loro attività istituzionale.

L’altisonante affermazione di principio, secondo cui «tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge» si infrange così contro la scivolosa realtà delle applicazioni effettive, in cui la bilancia viene fatta pendere dalla parte che si preferisce.

Vuoi in forza della propria sensibilità personale, vuoi (assai peggio) per motivi di fazione. E peraltro, com’è ovvio, può ben darsi che i due aspetti si intreccino e si confondano: si hanno determinate convinzioni, ci si lega ad ambienti o organizzazioni che ne perseguono l’affermazione, si fa quello che si può per essere d’aiuto.

Non siamo ingenui. Non facciamo finta di cadere dalle nuvole. Queste interferenze ci sono e in qualche misura sono inevitabili.

Ma la chiave di volta sta proprio in questo: nella loro misura. E nella consapevolezza che il codice penale non si può applicare immediatamente agli atti di governo.

Essi sono un’altra cosa. Si basano su altre logiche. Esigono altri strumenti di giudizio.

Gerardo Valentini

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