Con la presentazione sabato delle liste dei candidati è partita ufficialmente la campagna elettorale per le elezioni regionali del 20 e 21 settembre in Veneto, Toscana, Marche, Campania e Puglia. Nonostante gli «abiuri» pentastellati e gli sforzi di Giuseppe Conte e Vito Crimi, il Movimento Cinque Stelle e il Partito Democratico avranno un candidato comune soltanto in Liguria.
Scontata la corsa a tre in Toscana e Campania, i vertici rosso-gialli speravano di ripetere l’alleanza di governo almeno nelle Marche e in Puglia, ma nulla hanno potuto di fronte al rifiuto dei loro esponenti regionali.
Ulteriori «distinguo» sono inoltre giunti dal partito di Renzi. Italia Viva correrà infatti da sola in Veneto, Liguria e Puglia.
Nella stessa tornata elettorale gli italiani saranno chiamati ad esprimersi nel Referendum confermativo del taglio del parlamentari. Si voterà in diversi comuni, tra i quali Venezia, Matera e Reggio Calabria, e per il rinnovo del Consiglio regionale della Valle d’Aosta, dove non è prevista l’elezione diretta del Governatore.
L’«abiura» pentastellata
Dieci giorni fa, in previsione delle imminenti elezioni regionali e delle comunali del prossimo anno, il Movimento Cinque Stelle aveva fatto ratificare dalla piattaforma Rousseau la rinuncia a due postulati fondanti del movimento creato da Grillo e Casaleggio: il limite due mandati per i consiglieri comunali e il divieto di alleanze con gli altri partiti.
Due decisioni di apparente buon senso: amministrare grandi città, regioni, o fare un buon lavoro parlamentare, richiede un esperienza e una conoscenza della macchina amministrativa o legislativa che si costruisce con il tempo. E le alleanze politiche sono connaturate al sistema democratico.
Tuttavia i due divieti non erano casuali, ma costitutivi della ragion d’essere – dell’«ideologia» fondante – del Movimento Cinque Stelle. Il divieto delle alleanze scaturiva dalla convinzione che i partiti storici fossero tutti corrotti e sostanzialmente tutti uguali. Lo slogan «Onestà, Onestà» esemplifica bene il rapporto che il partito di Grillo intendeva intrattenere con il mondo della politica nel suo complesso.
Il limite del secondo mandato era un coerente corollario. La permanenza nell’Ente locale rischiava di assimilare l’eletto grillino all’odiata casta. Il problema della professionalità non si sarebbe posto in quanto il percorso dell’amministratore pentastellato sarebbe stato guidato passo passo dalle indicazioni della base che sarebbero pervenute dalla piattaforma Rousseau.
Quello era il punto di partenza. Ma oggi ciò che veramente importa alla nomenclatura grillina è riuscire a rimanere attaccata alle poltrone conquistate e così i principi fondativi possono essere abbandonati.
L’appello di Conte e le parole di Crimi
La prima applicazione di quella che il Cinque Stelle ipocritamente definiscono «evoluzione», l’alleanza rosso-gialla alle Regionali, è però naufragata miseramente. Vedremo nella prossima primavera se andrà in porto il tentativo pentastellato di far convergere il Pd sulla ricandidatura di Virginia Raggi alla poltrona più alta del Campidoglio.
A nulla è valso l’appello del presidente del Consiglio del 18 agosto alle forze di maggioranza perché comprendono l’importanza di sostenere unitariamente «anche i nomi più indigesti all’uno o all’altro partito». E nel vuoto sono cadute anche le tardive e patetiche affermazioni di Vito Crimi al Corriere della Sera dove ha balbettato che «forse» il suo partito esagerò con le critiche al Partito Democratico per il caso dei presunti abusi sui minori a Bibbiano, di cui si parlò molto nell’estate del 2019.
L’incontro di due trasformismi
Naturalmente anche il Pd sta annegando in un’analoga perdita di identità, anche se a prima vista meno evidente di quella del M5S. Siano di fronte, ha scritto Ernesto Galli della Loggia, sul Corriere del 20 agosto, all’incontro di due trasformismi, che si avviano «a divenire il vero principio costitutivo del sistema politico italiano». Perfettamente simboleggiato dal percorso di Giuseppe Conte.
«Con le sue ultime decisioni – scrive Galli della Loggia – il Partito democratico rinvia a data da destinarsi l’idea di una ‘rifondazione della sinistra’ annunciata lo scorso gennaio; rinuncia clamorosamente alla ‘vocazione maggioritaria’ che pure era un elemento essenziale del suo stesso atto di nascita per puntare viceversa su una strategia di alleanza organica con un’altra formazione; sceglie come partner di un’alleanza elettorale che si annuncia strategica proprio il partito che fino all’altro ieri considerava l’alfiere del populismo e quindi, insieme alle destra salviniana, il proprio maggior nemico.
«Giungendo al punto, per fare un solo esempio, che oggi esso ne sposa di fatto la riforma costituzionale, oggetto di un prossimo referendum, che ha ridotto il numero dei deputati. Proposta la quale, non accompagnata da alcuna ulteriore modifica del testo della Carta, apre la via a radicali mutamenti nel meccanismo dei quorum necessari ad eleggere alcuni organi di vertice della Repubblica».
Da parte nostra ci auguriamo che sul ritorno a questo trasformismo di sapore ottocentesco gli elettori nelle urne diano un giudizio quanto più severo.
Vincenzo Fratta