UNIONE EUROPEA

Gli incarichi di vertice
escludono l’Italia. Per ora

I leader dei 27 paesi dell’Unione Europea. Nella foto ricordo del Consiglio Ue del 27 giugno con il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj

Era nell’aria ed è successo davvero con la nomina degli incarichi di vertice dell’Unione Europea. Decisi come al solito senza tener contro delle indicazioni uscite dalle urne l’8 e 9 giugno.

I nuovi vertici dell'Unione Europea: la tedesca Ursula von der Leyen (Ppe - popolari) mantiene la presidenza della Commissione europea (necessità però del voto del Parlamento Europeo), il portoghese Antonio Costa (Pse - socialisti) va alla presidenza del Consiglio europeo e l’estone Kaja Kallas (Renew - liberali) diventa Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue.I Popolari si sono alleati con i Progressisti e con i Liberali. Accordandosi alla svelta — prima del risultato delle elezioni politiche in Francia di domenica prossima — sulle prime tre nomine di altissimo livello. Attribuite, guarda caso, assegnando una maxi poltrona a ciascuna delle suddette formazioni. O fazioni, se preferite.

Una presidenza a testa

Nell’ordine: la tedesca Ursula von der Leyen (Ppe) alla Commissione Europea, il portoghese António Costa al Consiglio europeo e l’estone Kaja Kallas come Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza.

Già. Come se niente fosse. Come se i risultati delle ultime Europee fossero all’incirca gli stessi di quelli precedenti e non si vedesse, perciò, alcun motivo di riconsiderare le scelte del passato.

Le scelte. Ovverosia gli accordi di potere. Gli obiettivi prestabiliti, da quelli palesi a quelli meno evidenti, e i metodi per conseguirli. Nell’immediato così come nel medio e nel lungo termine. In una successione di condizionamenti che a loro volta coprono, e sfruttano, tutte le possibilità a disposizione: dalle minacce velate ai moniti espliciti, dalle enunciazioni di principio alle norme specifiche e vincolanti.

Giusto un paio di esempi, a beneficio dei più distratti.

Il primo. La «rivoluzione Green» per fingere di avere una coscienza ambientalista, salvo poi scaricare i costi dell’adeguamento di automobili e abitazioni (e quant’altro: la lista è destinata ad allungarsi) sulla generalità della popolazione.

Il secondo. L’insieme delle politiche economiche e finanziarie, dai vincoli di bilancio al controllo esclusivo della Bce sull’emissione di moneta e sui tassi di interessi, per restringere/annullare i margini di manovra dei singoli Paesi.

La tecnocrazia in salsa pseudo etica. L’ortodossia come obbligo. E guai a chi non si sottomette.

Ubbidire, please

Il messaggio, se mai ci fosse bisogno di chiarirlo, è sempre lo stesso. L’Unione Europea è quella che hanno deciso loro e non deve esserci alcuno spazio per chi vorrebbe spostarla su binari diversi.

I cittadini possono mandare tutti i segnali di disaccordo che vogliono, dall’enorme quantità degli astenuti al cospicuo rafforzamento dei partiti di destra, ma non servirà a niente.

Fintanto che i numeri degli eletti consentiranno di ignorare quelle indicazioni, neutralizzandole per mezzo delle intese successive al voto, continua a comandare chi lo ha fatto finora.

Detto in maniera spiccia: orecchie da mercante. Anzi, da monopolista. Che in quanto tale se ne può infischiare della crescente insoddisfazione per la cattiva qualità dei prodotti che smercia.

Detto in chiave aziendale: il consiglio d’amministrazione fa quello che gli pare, grazie al «sindacato di blocco» che gli rinnova il mandato, e della miriade di piccoli azionisti se ne infischia.

I cittadini si adegueranno, in un modo o nell’altro. Si adegueranno, quantomeno, perché non hanno alternative.

Il babau. E i «top jobs»

Gli avversari, a loro volta, vengono demonizzati. La destra, a meno che non sia quella innocua e moderata di un liberalismo senza pretese e allineato ai dogmi mainstream, liquidata all’istante come «estrema destra». Populista per definizione. Neofascista per Dna. Filorussa per istinto – Putin è l’Uomo forte, viva Putin – oppure per corruzione.

Come ha detto Giorgia Meloni alla Camera, nel suo intervento di mercoledì scorso, c’è «una sorta di «conventio ad excludendum in salsa europea».

Appunto. Le prove contrarie non sono ammesse. Non sono nemmeno contemplate. Saranno di sicuro simulazioni e travestimenti. L’unica democrazia possibile, e lecita, è quella della dottrina liberal-progressista.

Tutto ciò che va in senso contrario deve essere delegittimato a priori. Esorcizzandolo come una variante patologica della libertà di voto.

Una variante impura che sopravvive chissà come all’incedere trionfale dei modelli dominanti e che va stroncato con ogni mezzo e al più presto. Prima che si rafforzi ulteriormente o che addirittura dilaghi, conquistando quella maggioranza assoluta dei voti che poi sarebbe impossibile rovesciare con le alchimie di palazzo.

A proposito: per definire le succitate tre nomine di altissimo livello (Von der Leyen, Costa & Kallas) si è usata, anche su molti dei media italiani, la dicitura «top jobs». Invece, al di là della consueta sudditanza nei confronti dell’inglese, non c’è dubbio che sarebbe molto più giusto chiamarli «incarichi di vertice».

Non solo perché in italiano sarebbe chiaro a tutti, ma soprattutto perché «jobs» è troppo neutro, mentre «di vertice» ne sottolinea la rilevanza decisionale. Unitamente al rischio, per non dire alla certezza, di un accentramento oligarchico.

Ue. Unione di chi, esattamente?

Siamo al punto chiave. La vera natura, le vere intenzioni, di chi tira i fili dell’Unione Europea. Cercando di imporre la convinzione che quell’assetto specifico, e capzioso, costituisca la più autentica espressione dell’anima europea. Spacciando la propria struttura di potere per il riflesso istituzionale, disinteressato e oggettivo, della libera volontà degli elettori.

Finora il trucco è riuscito. E a prima vista l’esito di questa ennesima trattativa può dare l’impressione che sia destinato a durare ancora e ancora. A oltranza. All’infinito, sia pure nell’accezione relativa dei processi storici.

Ma questa è la superficie. È la facciata. Tuttora massiccia perché massicci, anzi esorbitanti, sono gli interessi di chi l’ha edificata a proprio vantaggio.

Bisogna spostare lo sguardo. Bisogna osservare tutto il resto. Le parti interne che sono logore. Le fondamenta che sono sempre meno solide.

La costruzione è enorme e tuttavia dà segni di cedimento e potrebbe implodere su sé stessa.

Gerardo Valentini

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