DONALD TRUMP

Lo spettro dei dazi Usa
che si aggira per il mondo

I dazi introdotti dagli Stati Uniti per tutti i Paesi del globo, poi cancellati, modificati e posticipati, stanno mettendo alle corde i mercati e facendo ballare le cancellerie europee. Ma non si tratta certo di «follia».

 

A senso unico, anche stavolta, sono i commenti della stampa e degli esponenti della sinistra, rispetto a quanto sta accadendo nel mondo a causa della politica dei dazi sbandierata da Donald Trump.

Donald Trump nel suo studio alla Casa BiancaL’antidoto, quanto mai illusorio, è liquidare le mosse del presidente degli Stati Uniti trinciando giudizi sommari, che mirano a screditarlo e/o a demonizzarlo. Anziché ragionare sulle loro effettive motivazioni si dà per acquisito che la politica dei dazi sia sbagliata sempre e comunque, per il fatto stesso che si contrappone ai modelli liberal-progressisti.

L’idea – l’accusa che viene mossa a Trump – è che sia un somaro calzato e vestito, incapace di mettere a fuoco le reali conseguenze di ciò che vuole imporre.

I giudizi alla Friedman & C

Alan Friedman, ad esempio, l’ha scritto pari pari sul quotidiano La Stampa: «il presidente americano non è abbastanza sofisticato per comprendere la macroeconomia». D’altronde, ha sottolineato subito dopo, questa smania risalirebbe ai «tardi anni ’80, quando era solo un palazzinaro controverso di New York, ancora lontano dal dichiarare sei fallimenti».

Per lui e i suoi lettori può essere sufficiente, allo scopo di ergersi sul piedistallo e di rassicurarsi. Si scaglia un esorcismo ai limiti della diffamazione (a dire il vero Trump, nel 1968, si è laureato in Economia alla prestigiosa Wharton School dell’Università della Pennsylvania) e la si chiude lì.

L’avversario di turno è un cretino. Reso pericoloso dall’enorme potere di cui dispone, ma che al tempo stesso rimane un cialtrone. Un demagogo populista che ha ammaliato gli elettori ma che non per questo merita nessun tipo di legittimazione. E nemmeno di attenzione.

Quattro in condotta e zero in profitto. Come se spettasse alle élite progressiste stabilire chi va promosso e chi va bocciato. Come se ne avessero davvero il mandato e la forza, nel mondo odierno che sta sconvolgendo gli assetti precedenti e svergognando le messinscene, fintamente egualitarie, del diritto internazionale e del libero commercio globalizzato.

La cruda verità, finalmente

Uno degli ordini esecutivi firmati a raffica dal presidente TrumpDonald Trump, non c’è dubbio, è un personaggio tracotante. Rozzo nel linguaggio e brutale nei contenuti. Capace di cambiare posizione nel giro di un amen e di contraddirsi ogni volta che gli fa comodo.

Tuttavia, rispetto ai suoi predecessori democrat alla Clinton e Obama ha il pregio di non celare i suoi obiettivi e le sue priorità dietro le apparenze, sommamente infide, di una leadership benintenzionata e super partes.

Trump, e insieme a lui il complesso sistema di interessi che innerva gli Stati Uniti d’America, persegue innanzitutto i propri vantaggi. Che sono tanto economici quanto politici. Tanto in ambito interno quanto in proiezione estera, e addirittura planetaria.

Ma questa non è affatto una novità assoluta. Semmai, è il manifestarsi della verità strategica che si nascondeva dietro certi accorgimenti tattici. Dal cui ripetersi, dal cui accumularsi, è scaturito un abbaglio fatale: che gli Stati Uniti e l’Europa avessero un destino comune.

La verità è ben diversa. La verità è che per molti anni, dalla fine della Seconda guerra mondiale in poi, questi disegni egemonici hanno trovato utile appoggiarsi all’Europa occidentale, sia in chiave antisovietica, sia per consolidare certi stili di vita all’insegna delle pseudo libertà democratiche e del consumismo di beni materiali e immateriali.

Questa lunghissima fase di affiancamento, che peraltro non si è mai snodata su un autentico piano di parità ma all’insegna di una strisciante subordinazione ai desiderata/diktat della Casa Bianca, è arrivata all’epilogo.

Innescando una serie di reazioni a catena. Che sono appena agli inizi.

Tra i due litiganti, l’Europa non gode

Pressati dall’immane crescita economica della Cina, con il parallelo sviluppo delle sue tecnologie, dell’apparato militare e delle ambizioni geopolitiche, gli Stati Uniti si sono trovati di fronte alla necessità di sottrarsi alle dinamiche in atto.

La risposta di Trump e dei suoi è consistita nel rovesciare il tavolo: visto che quell’ascesa travolgente è stata costruita sul commercio internazionale, grazie a una smisurata capacità di produrre a costi molto bassi e di vendere a prezzi ultra concorrenziali, la contromossa è alzare delle barriere poderose.

Attraverso, appunto, i maxi dazi sulle importazioni. Annunciati nei confronti di una miriade di Paesi, ma resi operativi e drastici nei confronti di pochi. E al massimo grado, guarda caso, solo a carico della Cina.

Un attacco frontale che ha le fattezze di un provvedimento economico, e che però va letto in senso politico. Gli Usa stanno lanciando il loro messaggio globale: o con Washington o con Pechino.

Noi europei, vasi di coccio tra vasi di ferro, ci troviamo ancora una volta a dover scegliere tra una dipendenza e un’altra. La cosa bella, la cosa giusta, sarebbe essere autonomi e non dover soggiacere a nessun ricatto: ma per raggiungere tale obiettivo la strada è tremendamente in salita.

Gerardo Valentini

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