Rapporti di forza, punto. Ovvero: gli Stati Uniti comandano e gli altri si adeguano. Che gli piaccia o no. Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca lo mette in chiaro al di là di ogni possibile dubbio. E di ogni ulteriore ipocrisia.
Il suo slogan, America First, non è solo uno slogan. Il suo proclama Make America Great Again (sigla Maga) non è una suggestione campata per aria.
È un programma ad ampio o amplissimo raggio. Che investe innanzitutto la sfera interna, con la guerra aperta contro il Deep State e la cosiddetta cultura woke, ma che si proietta con analoga intensità verso l’esterno. Ossia sulla scena internazionale.
Prima delle Presidenziali dello scorso 5 novembre, e magari anche dopo, la parola d’ordine degli oppositori è stata demonizzarlo, tacciandolo di essere un avventuriero senza scrupoli e un pericolo per la democrazia. Allo stesso tempo, però, più di qualcuno si augurava che le sue fossero solo, o più che altro, delle sparate da campagna elettorale. Sciorinate a gran voce per polarizzare la sfida e raccogliere voti, salvo poi ripiegare su obiettivi meno dirompenti e toni più istituzionali.
Non è così. Trump ha tutte le intenzioni di mettere in pratica ciò che ha promesso e di farlo a tappe serrate. Non una questione alla volta, con la quale pavoneggiarsi e alimentare il consenso, ma tante questioni in simultanea, o quantomeno in parallelo.
Il presupposto è preciso e inequivocabile. Gli Stati Uniti hanno già adesso una serie di elementi a proprio favore, dall’indipendenza energetica al livello tecnologico e alla potenza militare, e li useranno in maniera sistematica e accelerata per moltiplicarne i vantaggi. E attenzione: non si tratta di un programma straordinario e a termine, la cui durata può essere più o meno lunga ma pur sempre limitata.
Niente affatto. Quello che si apre è un piano permanente di rafforzamento e rilancio. In cui gli Usa non si pongono più come i capifila di alleanze stabili e apparentemente libere, ma come i protagonisti di un’apoteosi autonoma. Che è perseguita essenzialmente nel proprio interesse e che solo di riflesso può consentire ad altre nazioni di ritrarne dei benefici.
Di riflesso e, sia ben chiaro, in maniera subordinata.
Prendere o lasciare, my friends
L’intervento di Trump al World Economic Forum di Davos (peraltro in video conferenza, a suggerire che lui ha altre urgenze e che non c’è nessun bisogno di una sua presenza in carne e ossa, visto che non deve dialogare di persona ma affermare le proprie convinzioni o addirittura impartire i suoi diktat) va esattamente in questa direzione.
Il mondo del futuro sarà più pacifico e prospero, ma a patto che si allinei alla leadership statunitense. Ci sono spazi di discussione, specialmente rispetto alle scelte fondamentali?
No. Le linee guida non sono e non saranno oggetto di dibattito. Semmai di proposte, avanzate col dovuto rispetto dagli interlocutori di turno e valutate di volta in volta, allo scopo di vagliarne la compatibilità con gli obiettivi stabiliti da Washington.
È un mutamento profondo. Che pur innestandosi su una supremazia di antica data e dalle mille implicazioni, anche torbide, investe le relazioni governative e ne scuote drasticamente le prassi. O le apparenze.
Dal dominio ufficioso si passa alla sua versione palese. Della serie: se aderite con convinzione, bene. Altrimenti potete scegliere tra fare buon viso a cattivo gioco o entrare in rotta di collisione con noi. Nel primo caso ve la caverete con oneri che, per quanto gravosi, saranno relativamente contenuti. Nel secondo… si vedrà. Ma state sicuri che non sarà a costo zero.
E noi, la vecchia Europa?
La favoletta è andata avanti per moltissimo tempo. La favoletta era quella degli europei alleati degli Stati Uniti «con pari dignità».
Ingannevole la formula. Fuorviante, ancora prima, il termine su cui essa ruota.
Questa sbandierata parità non c’è mai stata e quella che si è instaurata dal 1945 in avanti non è stata affatto un’alleanza libera e simmetrica, bensì un legame di dipendenza obbligata e piena di vincoli. Vincoli che in parte erano espliciti e in parte, o in misura anche maggiore, restavano sottintesi.
È stato un percorso lineare? Ovviamente no. Ma al di là delle diverse fasi, che richiederebbero ben altro approfondimento, il filo conduttore ha continuato a snodarsi, senza mai spezzarsi del tutto. E anzi rafforzandosi dagli anni Ottanta in poi, via via che l’Unione Sovietica si avvicinava al crollo e che le ideologie di matrice socialista venivano demonizzate a causa dell’estremismo.
Eliminati gli ostacoli, ecco spianata la strada all’avvento del nuovo pensiero unico: il liberismo galoppante mescolato ai diritti civili. I mercati impongono le loro regole ai rapporti economici e sociali. Negli spazi residui si inneggia all’inclusione delle minoranze di ogni sorta, etniche e sessuali.
Il cocktail è stato propagandato a oltranza, come si conviene in ogni grande strategia di marketing. In parecchi, in troppi, hanno abboccato: ma sì, la competizione globale è aspra anzichenò, il lavoro dipendente deve diventare molto più flessibile, il divario tra i pochi super ricchi e tutti gli altri si acuisce vieppiù, impoverendo anche la classe media… Però, wow, quante nuove libertà nella sfera personale.
Bene. Il trionfo di Trump ha almeno questo merito, per quanto brutali e sgradevoli siano i suoi modi: sta sgombrando il campo dalle fandonie rassicuranti e artificiose. Gli Usa non sono i nostri fratelli d’Oltreoceano, il capitalismo è un gioco duro e spietato, gli stranieri restano stranieri, i transessuali non sono l’evoluzione magnifica e fluida del genere umano.
Già. Andiamo verso tempi sempre più difficili, ma se non altro cerchiamo di farlo a occhi aperti.
Gerardo Valentini