L’attentato a Trump ha squarciato il velo sulla fragilità della democrazia americana, la cui retorica, che vede nell’antagonista il bersaglio da demonizzare, ha polarizzato a tal punto l’opinione pubblica da impedire di sublimare i conflitti nell’«agone» elettorale. Un fallimento dei fondamentali liberali.
Le pallottole che sfiorano Donald Trump
È il 13 luglio e l’ex Presidente Donald Trump sta tenendo un comizio a Butler in Pennsylvania, qualcuno tra la folla grida «ha una pistola», si vede Trump portarsi la mano alla testa e poi altri 6 distinti spari. Trump si accascia e viene coperto dal Secret Service, si vedono anche le squadre speciali in azione. Dopo qualche minuto Trump si erge con il volto sanguinante e trasfigurato ed esce ergendo il pugno al cielo.
Una scena iconica non c’è che dire, al pari di tante altre, considerando le similitudini anche tra l’evento e quanto accaduto a Giovanni Paolo II, il 13 maggio 1981, un altro anniversario delle apparizioni di Fatima.
Per inciso pare che l’ex Presidente avesse una copia della statua della Madonna di Fatima alla Casa Bianca, e che poche ore prima si fosse tenuta al Santuario Nazionale del Blue Army di Nostra Signora di Fatima, in Asbury, New Jersey, la Consacrazione dell’America al Cuore Immacolato di Maria presieduta dal Cardinale Leo Burke.
I precedenti di Berlusconi e Fico
Il volto insanguinato e fiero non può non ricordare quello di un altro politico, Silvio Berlusconi, colpito da una statua durante un comizio in piazza Duomo.
Le circostanze, invece, non possono non far tornare alla mente un altro attentato, quello al Presidente della Slovacchia, Robert Fico. Trump, peraltro, aveva appena ricevuto il Premier ungherese Victor Orban, a cui aveva promesso di risolvere la crisi ucraina, acuita, a suo dire, per la presenza di un Presidente «debole» (e forse ricattabile per via degli affari del figlio Hunter con Burisma Holdings), come Biden.
Su tutto spicca la lentezza e l’inefficienza delle misure di sicurezza, non solo per la reazione impacciata da parte del personale femminile, ma per gli avvisi inascoltati di qualche minuto prima dell’attentato, circa un uomo che si arrampicava in un tetto, riportati da alcuni funzionari all’ Associated Press poco prima degli spari.
Quel tetto era poi stato considerato luogo sensibile, ma poi, inspiegabilmente, non è stato messo in sicurezza.
Pare inoltre, che un agente della polizia locale sia salito sul tetto e l’attentatore gli abbia puntato addosso il fucile, poco prima di attentare alla vita dell’ex Presidente.
Ricordiamo che per gli spari ha perso la vita l’ex vigile del fuoco di origini calabresi Corey Coperatore, le cui ultime parole ai suoi cari sono state «state giù», nel tentativo di proteggerle.
Non sembra che l’attentatore fosse in qualche modo parte di movimenti organizzati, alcuni dati sono contraddittori, come la registrazione come elettore repubblicano (e questo gli permetteva di partecipare agli eventi del partito), e una donazione per i democratici attraverso un istituto che faceva campagne come stop ai repubblicani e dipingeva Trump come un pericolo per la democrazia. Chi ha sparato aveva indosso una maglietta di appassionati di armi e il padre pensava fosse ad un evento organizzato di quel tipo. Circolano poi video del suo diploma, e testimonianze dei suoi compagni di classe che lo descrivono come introverso, e compare anche in una campagna pubblicitaria di Black Rock (rimosso dalla compagnia). Probabilmente si saprà di più di Thomas Crook dall’analisi del telefonino fatta dall’FBI.
Il dibattito politico Usa
È noto come il fronte democratico sia scosso dall’evidente inadeguatezza di Biden, manifestatasi anche durante il «duello televisivo» contro Trump.
Come sempre, di fronte alla debolezza interna, si acuiscono le invettive contro un bersaglio esterno, in questo caso Trump, finendo per far coincidere la sua elezione con la «fine della democrazia».
Questo spartito dovrebbe far riflettere su quello che è avvenuto nel 2020. Gli Usa venivano da mesi di vere e proprie «sommosse» seguite all’uccisione, durante la detenzione, di George Floyd, (i cosiddetti black lives matter, organizzati dai movimenti antifà).
Durante le elezioni, poi, si verificarono così tante insolite coincidenze, a livello statistico (come preferenza di voti in maggiorazione record per il vincitore e per lo sconfitto, comparate con gli andamenti di tutte le elezioni precedenti, o gli andamenti delle Contee o Stati pilota o di tendenza) da poter, a ragione, proclamare che furono votazioni uniche nella storia americana.
Le contestazioni sul voto per posta, poi, hanno portato alle note manifestazioni del 6 gennaio conclusesi con il cosiddetto «assalto al Campidoglio», dove sembra di più non aver funzionato un idoneo sistema di cordone di polizia, per un evento prevedibile, promosso in via pacifica dal Presidente uscente.
Trump è stato comunque incriminato per i fatti del 6 gennaio dopo essere stato indicato come mens di questi dalla Commissione 6 gennaio.
Gli altri procedimenti, e la recente condanna per la vicenda Stormy Daniels, hanno peraltro tenuto banco nei mesi precedenti, fornendo benzina al candidato democratico, ma anche profonde divisione interne al popolo americano.
Tralasciamo altre similitudini con il nostro caso Berlusconi.
Tornando alle elezioni precedenti, bisogna ricordare che l’inadeguatezza di Biden era già salita all’onore delle cronache, data la sua età. Questo fa ritenere ancora più unica una preferenza così massiccia per lui, se non nell’ottica di «eliminare» Trump dalla Presidenza.
Il discorso alla nazione di Biden
Quello del voto-contro, è certamente l’anticamera della marcata polarizzazione dell’opinione pubblica e dei suoi esiti più nefasti, manifestatesi il 13 luglio.
Si capisce certamente l’empasse democratica, che non può certo sostituire il suo candidato in corsa, pena non solo un’inevitabile emorragia, ma anche la constatazione dell’inabilità del presidente in carica.
Tuttavia, sono certamente da registrare i toni, come quelli dell’ex speaker Nancy Pelosi, che parla di elezioni non normali, di un candidato «autocrate», da eliminare.
Ci sono dichiarazioni di questo tipo anche del candidato presidente Biden (per il secondo mandato consecutivo) il quale, tuttavia, dopo l’attentato a Trump, ha cercato un evidente cambio di rotta con il suo discorso alla nazione, che è ovviamente anche un discorso elettorale.
«Il discorso politico in questo paese — ha affermato Biden — è diventato molto acceso. È tempo di raffreddarlo. Abbiamo tutti la responsabilità di farlo.
Sì, abbiamo profonde e forti disaccordi. Le poste in gioco in queste elezioni sono enormemente alte. La scelta che faremo in queste elezioni modellerà il futuro dell’America e del mondo per decenni a venire. Il disaccordo è inevitabile nella democrazia americana.
Ma la politica non deve mai diventare un campo di battaglia letterale, Dio non voglia, un campo di sterminio. Credo che la politica debba essere un’arena di dibattito pacifico, per perseguire la giustizia, per prendere decisioni guidate dalla Dichiarazione d’Indipendenza e dalla nostra Costituzione.
In America, risolviamo le nostre differenze alle urne, non con i proiettili. Il potere di cambiare l’America dovrebbe sempre risiedere nelle mani del popolo, non nelle mani di un aspirante assassino. Il cammino avanti attraverso visioni concorrenti della campagna dovrebbe sempre essere risolto pacificamente, non attraverso atti di violenza.
Chiedo a ogni americano di rinnovare l’impegno a fare dell’America ciò che pensano sia speciale. Qui in America, tutti devono essere trattati con dignità e rispetto, e l’odio non deve avere nessun rifugio sicuro.
Qui in America, dobbiamo uscire dai nostri compartimenti dove ascoltiamo solo coloro con cui siamo d’accordo, dove la disinformazione è dilagante, dove attori stranieri alimentano le fiamme della nostra divisione per modellare gli esiti in linea con i loro interessi, non i nostri.
Ricordiamo, qui in America, mentre l’unità è l’obiettivo più sfuggente di tutti in questo momento, niente è più importante per noi ora che restare uniti. Possiamo farcela. Dio vi benedica tutti».
Molto interessante: un richiamo all’unità, e al confronto, evitando l’informazione circolare, ma allo stesso tempo indicando la nocività di fonti di informazione altre, e invocando l’unità di fronte ai «nemici esterni».
È evidente il non detto (volto a demonizzare indirettamente Trump), e ci sarebbe anche da dire riguardo input contraddittori, che svuotano certi principi richiamati, ma il salto di qualità della discussione è evidente.
Il passo indietro, e il richiamo ad una responsabilità comune dei candidati per promuovere, nello stile di affrontare i dibattiti e i confronti, la democrazia, sembra riecheggiare una lettera di Jacob Ware ricercatore del Council of Foreign Relation, dell’aprile scorso in cui detto autore esponeva il rischio attentati per i futuri candidati di alto profilo e proponeva prassi più trasparenti per il conteggio dei voti per posta.
I candidati delle prossime elezioni sono certamente l’espressione di una democrazia che ha bisogno di un rinnovamento, che manca di carisma, si potrebbe dire che sono espressione di una gerontocrazia che non può permettersi di presentarsi come modello altrui.
Inoltre, all’età avanzata corrisponde spesso l’ingessamento dei dibattiti, e di una retorica ormai logora, incapace di vedere i nuovi contesti, e che ha paura di revisionare i suoi fondamenti.
La nomina di un Vice presidente come JD Vance, senatore junior di 39 anni da parte di un Trump ancora bendato all’orecchio ferito, potrebbe essere un’inversione di tendenza.
Complicato, però, fare appelli all’unità da parte dei democratici quando il «trumpiano» è stato da loro vivisezionato come modello psicopatologico fino all’altro ieri, più credibile in questa veste potrebbe presentarsi Trump.
Tuttavia, sia che stiamo assistendo ad un’alba o a un tramonto, le elezioni del prossimo novembre acquistano un peso ancor più grande, e si spera siano fucina di un rinnovamento soprattutto della comunicazione e del confronto, con riverberi anche in Italia, da sempre attenta a quel che accade negli Usa.
Armando Mantuano