Nel Rapporto Draghi presentato il 9 settembre dall’ex presidente della Bce insieme insieme a Ursula von der Leyen sono contenute le proposte per evitare un lento e inesorabile declino del Vecchio Continente.
L’Unione Europea — rileva Mario Draghi — è a un punto di non ritorno e servono il doppio degli investimenti del Piano Marshall, per costruire una nuova strategia industriale: «Senza agire dovremo scegliere se compromettere il nostro benessere, il nostro ambiente o la nostra libertà».
Tra i dieci ambiti di intervento indicati e i cinque strumenti operativi indicati nel Rapporto Draghi è compresa la necessità di tagliare il nodo dell’onere normativo che grava sulle imprese europee. Un onere elevato e in continua crescita nei confronti del quale l’Ue non dispone di una metodologia comune per valutarlo.
Un flusso normativo crescente e incontrollato
La Commissione lavora da anni per ridurre la «riserva» e il «flusso» della regolamentazione nell’ambito dell’agenda «Legiferare meglio». Tuttavia, questo sforzo finora ha avuto un impatto limitato. La riserva di regolamentazione rimane elevata e le nuove normative crescono più rapidamente rispetto ad altre economie comparabili.
Sebbene i confronti diretti siano oscurati dai diversi sistemi politici e giuridici, negli Stati Uniti sono stati promulgati circa 3.500 testi di legge e sono state approvate circa 2.000 risoluzioni a livello federale nel corso degli ultimi tre mandati del Congresso (2019-2024). Nello stesso periodo le norme approvate dall’Unione Europea si aggirano intorno alle 13.000.
Nonostante questo crescente flusso normativo, la Ue non dispone di un quadro quantitativo per analizzare i costi e i benefici delle nuove norme. Tra le istituzioni europee, solo la Commissione ha sviluppato una metodologia (il modello dei costi standard) per calcolare gli oneri normativi, ma la sua applicazione concreta varia a seconda dei testi di legge.
I colegislatori (il Parlamento europeo e il Consiglio) non dispongono di una metodologia per misurare l’impatto degli emendamenti che propongono sulle proposte di normative comunitarie. Inoltre, non esiste una metodologia unica per valutare l’impatto della normativa comunitaria una volta recepita a livello nazionale e solo pochi Stati membri misurano sistematicamente l’impatto della legislazione comunitaria recepita, rendendo a sua volta più difficile il controllo da parte dei Parlamenti nazionali.
I tre principali ostacoli per le aziende
Le imprese europee devono affrontare tre ostacoli principali dovuti al crescente peso della normativa.
- In primo luogo, devono conformarsi all’accumulo o alle frequenti modifiche apportate alla normativa comunitaria nel corso del tempo, che si traducono in sovrapposizioni e incongruenze. Ad esempio, un’analisi delle lacune di Business Europe su 13 testi di legge dell’Ue ha evidenziato una duplicazione di 169 requisiti, comprese differenze (29%) e vere e proprie incoerenze (11%).
- In secondo luogo, le aziende dell’Ue devono affrontare un onere aggiuntivo a causa del recepimento nazionale, ad esempio quando gli Stati membri «sovra regolamentano» la normativa della Ue o attuano norme con requisiti e standard divergenti da un Paese all’altro. In particolare il Regolamento generale sulla protezione dei dati (Rgpd) è stato attuato con un ampio grado di frammentazione che mina gli obiettivi digitali dell’Unione Europea.
- In terzo luogo, la normativa della Ue impone un onere proporzionalmente maggiore alle Pmi e alle piccole imprese a media capitalizzazione rispetto alle aziende più grandi, ma l’Unione non dispone di un quadro di riferimento per valutare tali costi.
Circa l’80% dei punti del programma di lavoro della Commissione sono rilevanti per le Pmi, ma solo approssimativamente la metà delle valutazioni d’impatto si è concentrata su queste aziende. L’Unione Europea non dispone inoltre di una definizione comune di piccole imprese a media capitalizzazione e di dati statistici prontamente disponibili.
Maria Facendola