Si apre a Bruxelles la difficile trattativa sul Patto di stabilità, la cui modifica è una necessità per l’Italia e per diversi paesi dell’Unione Europea. L’eredità del Trattato di Maastricht e l’ostacolo di Germania e Danimarca.
«Sono disposto a discutere di una riduzione ragionevole del debito pari a un punto di Pil all’anno, ma prima si devono esaurire i fumi dei superbonus edilizi, che per qualche anno peseranno sui conti italiani.»
Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha le idee chiare. Sa benissimo che quella che si cercherà di portare a termine nella riunione dell’Ecofin — il Consiglio Economia e finanza, responsabile della politica dell’Unione Europea per la politica economica, le questioni relative alla fiscalità e la regolamentazione dei servizi finanziari — fissata per venerdì 8 dicembre, con ottime probabilità di protrarsi anche nella giornata di sabato, è una trattativa complicatissima.
Chi si trova con un debito pubblico molto elevato – come appunto l’Italia che è gravata da un fardello salito, a fine 2022, a 2.762 miliardi di euro, pari a circa il 145% del Pil – ha bisogno di elasticità e tempi allungati, per poter correggere gli squilibri delle finanze statali senza innescare dei contraccolpi micidiali sul tessuto economico complessivo e sui sistemi di welfare.
Viceversa, chi può vantare dei conti erariali molto più in ordine, come Germania e Danimarca, spinge per imporre condizioni restrittive. Tanto onerose quanto accelerate.
Misure che fatalmente si risolverebbero in una terribile zavorra per chi vi dovesse sottostare e che quindi, poiché la debolezza altrui si trasforma di per sé in un vantaggio competitivo, andrebbero a rafforzare ulteriormente chi gode già di maggiori margini di manovra nella gestione dei fondi pubblici.
Maastricht: l’apparenza e la realtà
È il vizio oscuro dell’Unione Europea. Dietro la facciata delle scelte collettive e condivise, per non parlare dei proclami «idealistici» su questo e su quello, si muovono gli interessi di parte.
In teoria ci si appella a criteri giusti o persino altisonanti. Di fatto, si cerca di lucrare un privilegio.
In questo caso, e ancora una volta, la discussione verte sui vincoli di bilancio dei singoli Stati. Quelli che vennero sanciti nell’ormai remoto 1992 dal Trattato di Maastricht e che da lì in avanti – benché violati a più riprese e da tutti i Paesi di maggior rilievo, per poi essere sospesi a causa del Covid con una serie di rinvii che scadranno a fine 2023 – sono rimasti a incombere come la proverbiale «spada di Damocle». Esponendo chi li viola a reprimende e sanzioni. A pressioni ripetute e di vario genere, quando non a obblighi espliciti.
Benché i due parametri principali del Trattato di Maastricht siano arcinoti vale sempre la pena di ricordarli: il disavanzo annuale e il debito pubblico dovevano rispettare dei limiti ben precisi, rispetto al Pil nazionale. Per il deficit la soglia massima era il 3%. Per il debito pubblico il 60.
In realtà, come ormai è stato ampiamente riconosciuto, quei valori erano convenzionali. Ossia arbitrari. Il vero motivo per cui furono fissati non era prettamente finanziario ma politico.
Molto più che per delle ragioni stringenti sul piano contabile, furono introdotti per rendere «oggettivi» i richiami all’ordine nei confronti di coloro che li avessero infranti. Così da poterli spingere ad apportare delle modifiche rilevanti alla propria organizzazione socioeconomica. Esatto: le cosiddette riforme.
Risanare sì, ma gradualmente
Le questioni che pone Giorgetti, a nome del Governo nel suo insieme, sono del tutto sensate.
Il filo conduttore, infatti, è che in tema di spesa pubblica bisogna distinguere con la massima chiarezza tra costi improduttivi e investimenti. Come anche tra le decisioni interne che possono essere più o meno opinabili e l’adeguamento obbligatorio alle strategie Ue, vedi il sostegno all’Ucraina e la transizione green.
Fermarsi ai saldi di bilancio, tanto più se su base annuale, è un approccio ottuso e fuorviante. Sempre ammesso che invece non sia capzioso e finalizzato, come abbiamo già visto, a favorire alcuni Stati a scapito di altri.
La stessa Commissione Europea, del resto, ha presentato nell’aprile scorso una proposta di modifica del Patto di stabilità che dà spazio a percorsi diversificati di risanamento. Pur non modificando i vecchi, logori criteri di Maastricht, concede se non altro la possibilità di soddisfarli, o almeno di avvicinarvisi, attraverso un iter progressivo e pluriennale.
Impuntature come quella della Germania non sono solo sbagliate, in chiave prettamente finanziaria. Sono ostili sul piano politico. E come tali andrebbero trattate: l’ultima cosa di cui ha bisogno l’Europa, già indebolita com’è dai sommovimenti in atto nel quadro internazionale, è di lotte fratricide al suo interno.
Tanto più se ipocrite. Scatenate mascherandosi da alfieri della buona amministrazione quando, in effetti, si ha lo scopo di mantenere gli attuali rapporti di forza. O addirittura di esasperarli.
Gerardo Valentini