GERMANIA

La lezione delle elezioni
in Turingia e Sassonia

 

La tornata elettorale del 1 settembre in Germania è stata uno shock per i partiti della coalizione che sostiene il governo federale. Nei due Land in cui si è votato — Turingia e Sassonia — si è registrato un successo al di là di ogni previsione per Alternative für Deutschland (Afd) e per il neonato raggruppamento di Sahra Wagenknecht (Bsw).

Sahra WagenknechtI partiti della coalizione che sostiene il governo federale ne sono usciti con le ossa rotte, a cominciare dalla Spd del Cancelliere Olaf Scholz.

Le cifre sono quelle di un’autentica debacle. Che è arrivata a tre settimane di distanza dalle prossime elezioni locali, in programma nel Brandeburgo il 22 settembre, e a un anno da quelle federali che si svolgeranno il 28 settembre 2025.

Questo tracollo, anticipato dai sondaggi, va maneggiato con grande attenzione. Nella consapevolezza che presenta, allo stesso tempo, dei caratteri suoi propri e delle motivazioni assai più ampie.

Per un verso non lo si può proiettare in modo meccanico su scala nazionale, visto che si tratta di consultazioni territoriali e tenute, perdipiù, in due Land della Germania Orientale, la ex Ddr di stampo comunista.

Per l’altro non è nemmeno lecito liquidarla come un risultato specifico e anomalo. Tanto circoscritto sul piano geografico quanto accidentale su quello socioeconomico.

La realtà è molto più complessa. E va ben oltre la sola Germania.

Il popolo è stufo, non soltanto in Germania

Michel Barnier incaricato da Emmanuel Macron di provare a forare il nuovo governo in FranciaPensate alle Europee. Pensate alla Francia. Pensate agli altri casi in cui i cittadini, chiamati alle urne, hanno manifestato il loro crescente allontanamento dalle classi dirigenti.

A volte lo hanno fatto attraverso l’astensionismo: in mancanza di opzioni a cui dare credito ci si rifugia nel limbo dell’assenza. Non potendo incidere come si vorrebbe ci si accontenta di non esserci. Per non essere, o non sentirsi, conniventi.

Una rivalsa minima, ma ce la si fa bastare. E pazienza se poi, nella generalità dei commenti mainstream, il segnale verrà sostanzialmente ignorato.

Un rifiuto consapevole? Addirittura una lacerazione nel tessuto democratico? Ma no: un miscuglio di insofferenza e di disattenzione. O persino, paradossalmente, una conferma di fiducia nei confronti del sistema. Fiducia in blocco. A prescindere dagli interpreti.

Altre volte, invece, la delusione e l’ostilità verso le classi dirigenti trovano i loro interpreti. Forze politiche che esprimono valori diversi, finalità differenti, percorsi alternativi a quelli abituali. Le invettive vanno a segno. Le parole d’ordine sono condivise. Il messaggio, sancito dalle urne, diventa troppo evidente per essere sottaciuto.

E allora, costretti a occuparsene, i funzionari dello status quo cercano di correre ai ripari.

Con i pasticci alla Macron, in Francia. Elezioni anticipate. Ossia arbitrarie. Tutti uniti per impedire al Rassemblement National di arrivare al governo: le Sinistre si immaginano protagoniste e abboccano all’amo, per poi ritrovarsi relegate, tanto per cambiare, a portatori d’acqua.

Monsieur le President la tira per le lunghe e alla fine dà l’incarico di primo ministro a Michel Barnier. Che è stato più volte Commissario Ue, prima con Barroso e poi con Prodi, e che in seguito ha assunto il ruolo di Capo negoziatore per l’attuazione della Brexit.

Ursula von der Leyen si affretta ad approvare: quel bravo signore «ha a cuore gli interessi della Francia e dell’Europa».

Un mea culpa? Giammai

In Germania, almeno per ora, il gioco è ancora più facile.

La già nota Afd, Alternative für Deutschland, viene tacciata di neonazismo. La neonata Bsw, Bündnis Sahra Wagenknecht, si becca l’etichetta di populista di sinistra. Su entrambe, inoltre, cala l’anatema di pronto impiego, da un paio d’anni in qua: filorussi e putiniani.

La tecnica è la solita. Tra screditamento e demonizzazione. Tra la gran voglia di minimizzare (un voto locale, una rabbia passeggera o comunque malriposta, dei soggetti politici impresentabili) e il bisogno parallelo di seminare l’allarme (estremisti, complottisti, venduti al nemico straniero) per evitare che l’onda d’urto si allarghi e travolga tutto.

Di autocritiche, invece, neanche l’ombra. Di ragionamenti obiettivi sui motivi profondi del disagio, sia materiale che interiore, manco un accenno: non è mica il modello dominante che mostra le sue crepe e vacilla sotto il peso delle proprie contraddizioni.

Macché. È il popolo che si sbaglia. O meglio: quella parte del popolo che non capisce, chissà perché, come non vi sia e non vi possa essere nessuna alternativa all’assetto attuale.

Yes, Ja, Oui. In tutte le lingue del mondo. O in quelle della Ue, se non altro.

Gerardo Valentini

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