Domenica pomeriggio Joe Biden ha gettato la spugna. Le pressioni dei suoi circoli lo hanno costretto al ritiro dalla corsa per la presidenza degli Stati Uniti. Ha scelto di sostenere la sua vice Kamala Harris, rimasta nell’ombra durante tutto il mandato, una figura opaca, ma giovane, donna e di origini africano-giamaicane-indiane (ma non certo di umili origini come avrebbe voluto far credere).
L’ endorsment alla sua vice arriva un’ora dopo la lettera in cui si congeda dalla corsa rimarcando che la sua intenzione fosse concorrere, ma che questa sua volontà non era compatibile con l’interesse del partito e del paese. Curioso come abbia rimarcato la frattura col suo partito, mettendo il relativo interesse prima di quello del Paese, evidentemente subordinato al primo.
L’annuncio, per quanto mi riguarda, arriva un po’ a sorpresa, non perché non sia cosciente delle dinamiche di pressione rispetto a chi detiene formalmente il potere, ma perché la sua dipartita politica apriva necessariamente questioni legate alla permanenza del suo ufficio, nonché sulla precedente candidatura.
La questione non può essere liquidata sbrigativamente. Il decadimento cognitivo, sia esso più o meno correlato all’età, riscontrato come causa del suo ritiro, e pudicamente definito «debolezza», se ha effetti su una campagna politica, fatta per lo più di comizi, tanto più li dovrebbe avere verso l’azione di governo con le esponenziali responsabilità correlate.
L’essere e il fare il Presidente
La carica di Presidente Usa, infatti, non è meramente figurativa, nemmeno funge da garante e da simbolo dei valori fondamentali della nazione (come da noi), ma è essenzialmente operativa.
Anche se attorniato da numerosi consiglieri, è il vertice decisionale dello Stato, l’organo che ha l’ultima e la più decisiva parola sulle questioni importanti, che coinvolgono il Paese, con riverberi in tutto il mondo.
Anche solo il dubbio di debolezza cognitiva, riaccende contestazioni in ordine ad un deep state dietro le quinte che tira le fila dei rappresentanti eletti e visibili.
Dare la conferma che Biden sia, almeno allo stato attuale, non più che una comparsa nella politica Usa, non può che evidenziare lo stato di una politica in cui il sentimento elettorale sembra venir deragliato da apparati di potere trasversali.
È certamente sconveniente dare voci a tali inquietudini, specialmente perché proprio la campagna presidenziale democratica si è spinta a screditare tali tesi come complottiste.
Eppure, è proprio l’esito sperato da autorevoli democratici come Barack Obama ad alimentarle. Ad esempio, la ritirata di un inadeguato Biden aggiungerebbe un ulteriore elemento di stranezza ai record compiuti dall’attuale presidenza durante le elezioni per il suo mandato.
Se, come minimo, ci possano essere elementi di dubbio rispetto ad un plebiscito per un Presidente che rimette la sua candidatura per la rielezione, di contro si offrono elementi a sostegno di quello che Trump ha definito «stop the steal», ossia gli ostacoli degli «apparati» per una sua rielezione democratica. Tali ostacoli, peraltro, potrebbero essere facilmente tradotti fino a collegarvi il recente attentato, dando una patina di credibilità a tali teorie.
Peraltro, proprio la retorica nata attorno al Russiagate, quasi che l’elettorato abbia scelto Trump su pressione estera, farebbe propendere per una contropressione propagandistica sul popolo americano, e, insieme, la promozione di ogni sorte di ostacolo al candidato Repubblicano, giustificabili ex post, come sempre, come necessari per gli interessi Usa.
Ecco quindi che i processi e le condanne di Trump possono essere anche dei boomerang contro la stessa amministrazione democratica, facilmente etichettabili come segmenti di una strategia orchestrata dai «poteri forti».
I riflessi sui due elettorati
Per tutti questi fattori concomitanti ritenevo improbabile un ritiro di Biden, soprattutto per i continui comunicati che reiteravano il suo impegno.
Inoltre, questo subitaneo ritiro si pone anche fuori dalla correttezza di una giusta competizione, valore che l’americano medio percepisce in maniera elevata al di là degli schieramenti.
Non a caso lo stesso Trump sul suo social dopo aver rimarcato come i democratici abbiano ingannato i loro elettori (o meglio «il pubblico», che può anche mutare orientamento), dà risalto al fatto che hanno ingannato anche i repubblicani, causando un enorme perdita di tempo e di soldi.
Effettivamente, non può essere indifferente centrare una campagna su un candidato, per poi vedersi spostare il bersaglio.
Si consideri che le elezioni, negli Usa, sono soprattutto una questione di soldi, vanno infatti avanti i candidati con più disponibilità finanziarie, attraverso gli sponsor.
Dall’altra parte della barricata, poi, non è senza conseguenze che i finanziatori abbiano versato soldi per un candidato e se li vedano dirottati dal fruitore (Biden) verso un altro (la Harris).
Peraltro, a riprova del condizionamento politico delle lobby, la piattaforma ActBlue (quella a cui avrebbe fatto un versamento anche l’attentatore di Trump), ha collezionato un importo di fondi da record al momento del ritiro di Biden.
È vero che anche la campagna presidenziale di Trump, dopo l’attentato, ha visto un notevole incremento, ma, sicuramente, quest’ultimo evento è totalmente non programmato, né, si spera, programmabile.
Se l’apparenza vale più della sostanza
Se c’è una cosa che insegnano gli ultimi sviluppi è che, per l’apparato politico, l’apparenza conta più della sostanza. È triste ammetterlo, ma anche evidenziare che le performance di un Biden non efficiente possano situarsi solo su un piano comunicativo e che, in realtà, egli abbia la capacità di guidare il Paese, comporta un giudizio negativo proprio sugli elettori democratici, facilmente condizionabili, riducibili a prodotto di consumo, da assoggettare attraverso la pubblicità veicolata dal circo mediatico, dove l’agorà pubblica diventa un palcoscenico.
Ecco quindi che non rileva tanto la capacità, ma la percezione della capacità del candidato, da parte del pubblico.
In buona sostanza non c’è lotta per la verità, né gli elettori sono considerati come soggetti autonomi, ma la politica si riduce ad un centro di influenze diverse, talora antagoniste, in cui il popolo è a volte preda e a volte bersaglio.
Armando Mantuano