Con la sentenza n. 143/2024 la Corte Costituzionale ha respinto la richiesta del Tribunale di Bolzano di dichiarare incostituzionale la legge n.164 sulla «rettificazione di attribuzione di sesso» aprendo alla possibilità di inserire la dicitura «altro sesso» nelle sentenze di autorizzazione del Tribunale necessaria per dare valore giuridico al cambiamento di sesso.
Inserendosi nel filone giudiziario che intende modificare la legislazione a colpi di sentenze, ma consapevole dell’impossibilità di giungere al risultato auspicato in via ermeneutica, il Tribunale di Bolzano aveva chiesto esplicitamente una sentenza additiva della Corte, sulla scia delle pronunce della stessa in ambito di fine vita.
La richiesta del Tribunale di Bolzano
Pur bocciando la sottesa richiesta di riconoscimento giuridico del «terzo sesso», la Corte ha accolto il secondo rilievo avanzato dai giudici di Bolzano dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’autorizzazione preventiva del Tribunale al trattamento medico-chirugico «qualora le modificazioni dei caratteri sessuali già intervenute siano ritenute dallo stesso tribunale sufficienti per l’accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso».
In questa seconda questione non viene accolta la prospettazione di esclusione dell’intervento dell’Organo giudiziale ma si ritiene superflua una pronuncia di autorizzazione all’intervento chirurgico a seguito dell’accoglimento della domanda di rettificazione di sesso. La normativa viene così adeguata all’evoluzione giurisprudenziale che aveva stabilito la possibilità di altri interventi medici (ad. esempio una cura ormonale), ma la rilevanza pubblica dell’identità civica acquisita fa ritenere comunque necessario l’intervento del Tribunale.
Come per la bocciatura del primo rilievo, anche qui vale la considerazione per gli istituti di diritto di famiglia coinvolti nella transizione di genere.
Un nuovo genere neutro?
Nessuno mette in discussione la rigida binarietà del sistema legislativo italiano, addirittura la stessa legge sulle unioni civili la rafforzerebbe con ciò facendo propendere per la qualifica di principio invalicabile di ordine pubblico.
Evidentemente, infatti, mettere in discussione la binarietà comporterebbe una riforma sistematica in ambi tra i più disparati.
Come ricorda proprio la pronuncia in commento: «Per ricordare solo gli aspetti di maggior evidenza, il binarismo di genere informa il diritto di famiglia (così per il matrimonio e l’unione civile, negozi riservati a persone di sesso diverso e, rispettivamente, dello stesso sesso), il diritto del lavoro (per le azioni positive in favore della lavoratrice), il diritto dello sport (per la distinzione degli ambiti competitivi), il diritto della riservatezza (i «luoghi di contatto», quali carceri, ospedali e simili, sono normalmente strutturati per genere maschile e femminile)».
L’art. 1 del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell’articolo 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246), dopo aver sancito il principio della parità di trattamento e di opportunità «tra donne e uomini», da assicurare in tutti i campi (comma 2), precisa che esso non osta al mantenimento o all’adozione di misure in favore del «sesso sottorappresentato» (comma 3).
La disciplina dello Stato Civile
La rettificazione in senso non binario inciderebbe anche sulla disciplina dello stato civile, e non soltanto per la necessità di coniare una nuova voce di registrazione, ma anche riguardo al nome della persona.
Infatti, l’art. 35, comma 1, del Dpr 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127) stabilisce il principio della corrispondenza tra nome e sesso, principio che andrebbe superato, o quantomeno relativizzato, per le persone con identità non binaria, giacché nell’onomastica italiana i nomi ambigenere sono rarissimi.
A confermarlo è proprio il caso di specie, nel quale la persona chiede il riconoscimento dell’identità non binaria e vuole pertanto abbandonare il nome femminile imposto alla nascita, e tuttavia opta, in sostituzione, per un nome maschile).
È vero che la Consulta stimola il legislatore a confrontarsi con i cambiamenti avvertiti in alcune legislazioni, ma sottolinea anche come la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ha recentemente escluso che l’art. 8 Cedu ponga sugli Stati un’obbligazione positiva di registrazione non binaria (sentenza 31 gennaio 2023, Y. contro Francia).
Il riferimento marcato al principio personalistico così come quello alla dignità sociale e al diritto della salute (artt. 2, 3, 32) non sembra poi far propendere per un adeguamento del sistema normativo italiano alla creazione di un genere altro, nemmeno considerando prioritaria la «percezione» del singolo e la solidarietà sociale a sostegno di questa.
Anche richiamando l’evoluzione contenuta nelle ultime edizioni del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (Dsm) sul dimorfismo di genere, quello che rileva è l’opposizione radicata al sesso della nascita.
La creazione di altri generi non farebbe infatti altro che evidenziare l’indeterminazione dell’assegnazione successiva.
Ma sarebbe proprio tale indeterminazione a sconsigliare un intervento demolitivo irreversibile.
Da ciò la considerazione che i segnali di una presunta e impossibile neutralità — «terzo sesso» —, tenderebbero semplicemente a esprimere una percezione di incompiutezza che una definizione (tratta da un nuovo vocabolario di genere) non farebbe altro che cristallizzare.
Si tratterebbe della riduzione atomistica di una classificazione — l’appartenenza a un sesso — che invece in sè è sociale.
Questo è un tema che in verità non è per nulla affrontato: quanto di queste rivendicazioni si rifà ad un’opposizione sociale ad un anticonformismo demassificatorio.
Qualora fosse così, ogni nuova classificazione (per giunta anagrafica) finirebbe per essere percepita solo come gabbia più piccola, e quindi più angusta.
Il caso in esame della Corte Costituzionale
Paradossalmente proprio l’esame di questa questione fa propendere per la giustezza di tale riflessione.
Nella sentenza si specifica che: «Il giudice a quo riferisce di essere stato adito da una persona di sesso anagrafico femminile che, non riconoscendosi in tale genere, né in quello maschile, bensì in un genere non binario, si è rivolta alle strutture sanitarie pubbliche, dalle quali ha ricevuto una diagnosi di disforia o incongruenza di genere, per identificazione non binaria, con inclinazione al polo maschile».
La stessa carriera alias citata dalla Corte era stata usata dal ricorrente per identificarsi come maschio. Egli ha infine assunto un nome da maschio.
La questione non è di poco conto e testimonia dell’astrattezza delle questioni sollevate.
Il caso emblematico di Imane Khelif
La sentenza della Consulta è giunta contestualmente al caso della pugile algerina Imane Khelif ritenuta da una federazione pugilistica non accreditata al Comitato Olimpico come «uomo».
Il caso ha avuto peraltro un aggiornamento significativo con presunte rivelazioni di un giornalista francese riguardo esami ecografici e una denuncia della pugile, apparsa anche nel programma tv Lo stato delle cose condotta ma Massimo Giletti.
La sua storia, al di là delle considerazioni medico-cliniche, insegna che l’assegnazione binaria è costitutivamente sociale.
La difesa sociale della sua femminilità si basa proprio su questi presupposti.
Al di là delle suggestioni di senso contrario che possono condizionare la percezione.
Suggestioni certamente dovute alle vittorie in uno sport come il pugilato.
Anche se ci si dimentica i ko subiti da lei, oppure le strutture muscolari di altre atlete non criticate.
Allargando il discorso alle persone cosiddette «intersex» — ossia con caratteri primari e secondari non congruenti — anche per la definizione lessicale, si sarebbe portati ancor di più a considerare la creazione di un terzo sesso, eppure proprio la tutela della loro integrità dell’identità primaria (che non è solo individuale), comporta l’ausilio di interventi su alcuni caratteri secondari di chirurgia modificativa/demolitiva.
Ciò perché in natura esistono solo i poli maschile/femminile. Al di là del maggiore o minore radicamento e del conseguente discernimento, l’affermazione sociale conseguente non può quindi prescinderne.
Il problema semmai riguarda la costruzione sociale di un’identità difforme dalla nascita, quella che per relativizzarne la portata viene definita «attribuzione».
In questo caso, l’accoglimento giudiziale dell’affermazione individuale, cristallizza la ancor più palese contraddizione tra dato di natura e dato sociale/ambientale (posto che questo possa essere condizionato per sentenza, con le implicazioni di ingiustizia sociale che comporterebbe).
Come conseguenza, si renderebbe impossibile l’integrazione individuale tra le due sfere e identità umane, nella mera illusione che la seconda possa sostituire l’altra.
Proprio la creazione del «terzo sesso» radicherebbe ancora di più, e irrimediabilmente, questa convinzione.
In conclusione, la Consulta invita certamente al confronto, ma senza una necessaria soluzione alternativa al nostro modello legislativo, i cui principi verrebbero definitivamente stravolti, come anche quelli sociali.
Armando Mantuano avvocato