Il cosiddetto «scudo penale» per le Forze dell’ordine sta riempiendo da giorni le pagine dei quotidiani. La discussione è incandescente, la norma di cui si discute… è inesistente.
Nel senso che per il momento non c’è nulla. Neanche l’ombra di quello che dovrebbe essere (forse, vedremo, chissà) il testo da portare in Parlamento in vista dell’ipotetica trasformazione in legge all’interno del «Decreto Sicurezza.
Nonostante ciò la galassia progressista è già in subbuglio: eccolo lì, il nuovo obiettivo del Governo autoritario di destra.
Chiaro: il dibattito politico e quello giornalistico non sono mica tenuti ad aspettare la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, prima di dire la loro, ma qui si esagera al contrario. E l’anticipazione, legittima, sprofonda nella strumentalizzazione, capziosa.
L’allarme sui quotidiani
Ecco qualche esempio. Mercoledì 15 gennaio, il quotidiano Domani (di Carlo De Benedetti, ex editore della galassia Repubblica-L’Espresso) salta alle conclusioni e se ne esce con questo titolo lapidario: «Si scrive scudo penale, ma si legge immunità. Agenti al di sopra della legge».
Come se non bastasse, la «testatina» subito sopra è ancora più drastica, con tendenza al catastrofico: «La fine dello Stato di diritto». Proprio così. Tutte maiuscole. A enfatizzare l’allarme.
Della serie: siccome potrebbe piovere, diamo per certo il diluvio.
Fine dello Stato di diritto?
Analogamente, il giorno successivo, alzano ulteriormente il tiro e passano all’editoriale. Firmato da Piero Ignazi.
Quella che si prospetta – insorge lui – è «una scelta di campo. Le forze dell’ordine hanno sempre e comunque ragione. E in effetti il governo prevede ora una norma ad hoc nel pericoloso Decreto Sicurezza per esentarle da ogni responsabilità.
Qualunque reato andranno a commettere, non saranno più perseguibili come gli altri cittadini. Uno scudo protettivo per lasciare mano libera ai loro interventi».
Peccato che… non sia vero.
Qualcuno tocchi Caino
Lo abbiamo già detto: la norma non è stata neanche abbozzata. E quindi, restandone quanto mai incerte le disposizioni, stabilirne a priori il contenuto e le conseguenze è puro arbitrio. E impura propaganda.
Come si dice, il processo alle intenzioni. O alle invenzioni. Non quelle degli avversari: le proprie.
In un ambito come questo, che verte sul confine tra uso lecito della forza ed eccesso colpevole o persino doloso, l’aspetto cruciale è l’effettiva portata delle tutele da introdurre. E dovrebbe essere superfluo specificare che la gamma delle varianti è amplissima, dai blandi correttivi sino alle modifiche straordinarie.
Diventa necessario, invece. Lo diventa di fronte alla sollevazione dei soliti paladini dei diritti a senso unico, preoccupatissimi che non si torca un capello a chi delinque. E perciò impazienti di gridare al Far West prossimo venturo. Sorvolando, tra l’altro, sulla differenza che sussiste comunque tra gli sceriffi e i fuorilegge.
Yes, anime candide: gli sceriffi non devono spadroneggiare, ma la priorità è fermare i fuorilegge. Quelli già in attività e quelli che si accingono a imitarli, incentivati dagli ampi margini di impunità.
Ex cathedra. Oppure in strada
A sentire Piero Ignazi, e non solo lui, lo scopo del Governo è introdurre un’impunità preventiva e generalizzata per le forze dell’ordine.
Il sottinteso, quando non il richiamo esplicito, sono gli abusi commessi in precedenza. A cominciare dai casi peggiori o comunque più noti: la famigerata (e imperdonabile) «macelleria messicana» del G8 di Genova nel 2001, la morte di Federico Aldrovandi nel 2005, quella di Stefano Cucchi nel 2009.
Ma poi c’è tutto il resto. Ci sono gli innumerevoli casi in cui gli agenti sono in azione, a qualsiasi ora del giorno e della notte, nei quartieri normali come in quelli degradati, e si ritrovano costretti a fronteggiare dei soggetti violenti. Criminali per abitudine o per circostanze.
Individui, o magari gruppi, che non sono neppure lontanamente dei malcapitati a rischio di subire atti coercitivi immotivati, essendo viceversa loro stessi a costituire un pericolo – un pericolo incombente, concreto, spietato – per chi tenti di ostacolarli.
Quella che poliziotti e carabinieri devono sostenere quotidianamente non è una serena competizione sportiva, con regole precise e condivise. Non è un torneo cavalleresco. È una guerra senza fine e senza esclusione di colpi.
Il contrasto all’illegalità
Lo «Stato di diritto» non può diventare un alibi per giocare ad armi impari con chi viola sistematicamente la legge. Nessuna garanzia procedurale può sfociare nell’impotenza, sconsolata e/o ipocrita, a bonificare le parti malate della nostra società.
L’approccio, dunque, andrebbe ribaltato. L’apprensione dovrebbe essere rivolta innanzitutto allo stato attuale della legalità in Italia. Ovvero del suo contrario: la illegalità.
Cominciamo con il chiederci qual è il clima odierno. E come ci siamo arrivati. Domandiamoci se nel loro insieme le prassi operative e gli orientamenti giudiziari, nonché i censori di professione che imperversano nei partiti e nei media, aiutino oppure no gli agenti che scendono in strada e rischiano la vita a raggiungere i loro indispensabili e sacrosanti obiettivi.
Che sono gli stessi di ogni cittadino onesto.
E che consistono (ma va?) nel reprimere i reati e nel mettere i delinquenti in condizione di non nuocere.
Gerardo Valentini