NICOLA RAO

Sergio Ramelli,
una ferita non rimarginata

Nicola Rao, Il tempo delle chiavi, Piemme

 

di Adriano Minardi Ruspi

In tutti gli anni che ci separano dal 1975, l’anniversario dell’assassinio di Sergio Ramelli ha sempre suscitato clamore e interesse sulla stampa nazionale, ma solo per le polemiche legate alla commemorazione.

Aggredito il 13 marzo 1975 da alcuni militanti della sinistra extraparlamentare che lo colpirono ripetutamente al capo con chiavi inglesi Sergio Ramelli morì il 29 aprile a causa dei traumi riportati.Tutti gli anni si è sempre puntualmente posto il tema della proibizione, richiesta a gran voce da Anpi e affini, di qualunque mobilitazione in ricordo del giovane assassinato perché, a qualunque convocazione pubblica del ricordo, scattava immediatamente la mobilitazione antifascista (anche di piazza), come se il ricordo, la commemorazione integrasse di per sé il reato di «lesa maestà antifascista».

La vicenda giudiziaria di alcuni partecipanti alla cerimonia, con la nota e pretestuosa questione della liceità o meno del saluto romano, si è dipanata in alcune aule giudiziarie del paese giungendo fino alla Cassazione che, quantomeno, ha rappresentato un (ci auguriamo) definitivo punto fermo sulla questione con la distinzione tra il saluto a scopo commemorativo o a scopo puramente apologetico.

Il parallelo con la strage di Acca Larentia

Insomma, a Milano, ma analoghe considerazioni potrebbero porsi per altre ricorrenze ad alto valore simbolico come la strage di Acca Larentia, non è stato mai facile o quantomeno normale, ricordare l’uccisione di un giovane di 17 anni, sprangato dagli aderenti al servizio d’ordine di Avanguardia Operaia e morto dopo 47 giorni di agonia.

Questo fa facilmente comprendere le ragioni per le quali nel corso di questi anni non si sia riflettuto fino in fondo (ed anche nel periodo del processo ai suoi assassini, di cui era noto il contesto di appartenenza) sulla tragedia della morte di Sergio Ramelli, sull’ambiente in cui maturò l’omicidio e sulle responsabilità non solo penali ma soprattutto etico-morali anche del terreno, culturale e politico, in cui l’omicidio maturò.

Ecco quindi che il libro Il tempo delle chiavi di Nicola Rao, colma oggi una grande lacuna del dibattito pubblico, sebbene non siano mancate in questi anni occasioni di dibattito e, comunque, di analisi e ricordo nate nell’ambiente prossimo alla destra politica.

Citiamo a titolo esemplificativo il pregevole volume collettaneo Sergio Ramelli una storia che fa ancora paura, giunto alla IX edizione, tutte iniziative però regolarmente silenziate e depotenziate dalla grande comunicazione, per troppi anni volutamente distratta su questi temi.

Il libro di Nicola Rao spezza ancora una volta questa catena di omissioni e silenzi e porta un ulteriore contributo di approfondimento e di riflessione a tutto tondo sul periodo.

Si tratta, come accennato, di una ricostruzione puntuale e documentata del contesto in cui maturò l’omicidio di Sergio Ramelli, a partire dai primi anni 70 ed all’inizio della strategia della tensione con la strage di Piazza Fontana, e di quello che fu poi il processo ai suoi assassini, comunque tardivo e dovuto solo alla costanza investigativa di alcuni magistrati milanesi.

La stagione dei servizi d’ordine

Nicola Rao, Il tempo delle chiavi, PiemmeSono gli anni in cui matura, come onda lunga della contestazione del 68, l’esplosione militante della sinistra extraparlamentare con il suo controllo «militare» delle piazze attraverso l’organizzazione di veri e propri apparati paramilitari come i «katanga» del movimento studentesco e gli altrettanto e tristemente famosi servizi d’ordine delle altre organizzazioni extraparlamentari.

Caratteristica comune di tutte era però la dichiarata, rivendicata e giustificata, vocazione allo scontro di piazza, l’utilizzo della violenza come strumento di controllo del territorio, con una strategia di espulsione del presunto nemico da ogni contesto sociale, fabbrica, quartiere, scuole ed università che fossero, con un’escalation di violenza politica diffusa non solo a Milano, dove si concentra l’analisi dell’autore ma anche a Roma ed in gran parte delle città italiane.

Nell’analisi, peraltro, non viene taciuta o sottovalutata la presenza e il radicalismo della controparte rappresentata dalla destra radicale operante in quel periodo, di cui viene però evidenziato l’utilizzo di una violenza sostanzialmente priva di sistematicità e legata il più delle volte ad esigenza di difesa del territorio e dell’agibilità politica, peraltro sempre più ristretta e circoscritta.

La ricostruzione dell’omicidio

Katanga in azione a MilanoRicostruire il contesto in cui maturò l’omicidio di Sergio Ramelli significa non soltanto porre in primo piano i fatti nella loro cruda integralità e sequenza temporale, ma mettere in piena luce le responsabilità, i silenzi, le omissioni, la volontà di creare mobilitazioni permanenti nell’opinione pubblica contro un nemico «oggettivo». Ovvero esattamente il modus operandi del mondo giornalistico, sociale e politico del tempo rispetto all’esplodere della violenza.

Il terrorismo stragista, la paura di una soluzione «golpista» della crisi politica del paese, il perdurare della contrapposizione destra sinistra figlia del dopoguerra, fecero da volano alla violenza di piazza o quantomeno non consentirono a tutte le parti sane del sistema di isolare e combattere questo fenomeno eversivo.

Ne Il tempo delle chiavi viene molto ben descritta la tecnica di minimizzazione costante della matrice politica della violenza operata a livello mass mediologico con i giornali sempre pronti comunque a descrivere tutti gli episodi di violenza come momenti di risposta a provocazioni – dello Stato o del nemico oggettivo – quando la semplice analisi del numero degli episodi che si andavano via via verificando, la sistematicità della degenerazione della lotta politica in scontro di piazza avrebbero potuto o probabilmente contribuito ad arginare il fenomeno.

Giornalista e storico degli Anni Settanta, nelle sue analisi Nicola Rao non è mai di parte ed è puntuale nel mettere in rilievo, come accennavamo in precedenza, la presenza di una destra radicale, sicuramente molto combattiva e certamente non aliena al ricorso alla violenza, ancorché estremamente minoritaria sotto il profilo delle forze in campo e, quindi, costretta ad assumere un ruolo molto spesso di pura difesa della propria integrità fisica.

Ma non solo l’ambiente giornalistico a qualsiasi livello ma tutto il contesto sociale coinvolto nell’esplosione della violenza diffusa di quegli anni reagì nelle forme della minimizzazione continua degli episodi di violenza che venivano da sinistra in assoluta continuità di analisi e ragionamento già manifestata in occasione della nascita delle Brigate Rosse.

Organizzazione che, ricordiamo, conobbe la sua iniziazione all’omicidio politico nel 1974 proprio ai danni di due militanti del Movimento sociale italiano, uccisi nella federazione missina di Padova con un delitto i cui esecutori materiali vennero scoperti anche in questo caso, molti anni dopo e per effetto della dissociazione e del pentimento di alcuni dei soggetti coinvolti.

Una rimozione collettiva

Autori Vari, Sergio Ramelli. Una storia che fa ancora paura, Idrovolante Edizioni

Ben venga quindi un libro come Il tempo delle chiavi che spezza un’omissione e una rimozione collettiva riproponendo la vicenda di Sergio Ramelli che trovò il suo culmine nell’aggressione mortale ma che già si era manifestata come persecuzione continua, permanente, estesa alla famiglia del ragazzo, sotto gli occhi dei troppi che non vollero vedere o provare a capire e che preferirono girarsi dall’altra parte assecondando lo spirito del tempo perché in fondo, si trattava solo di un fascista…

Una descrizione minuziosa, basata sulle risultanze processuali ma anche su una documentazione archivistica di tutto rispetto.

Dalla descrizione dei fatti attraverso la stampa ed i media dell’epoca alle testimonianze dei soggetti protagonisti di quella stagione, finalmente distaccati dalla logica perversa che animò quegli anni e che possono oggi contribuire ad un sereno ripensamento storico sul tema, lontano ed alieno da qualunque stupida volontà di rivincita o strumentalizzazione postuma ma solo finalizzata alla costruzione di una memoria collettiva per quanto possibile condivisa, quantomeno nella difesa di valori fondamentali come il libero diritto all’espressione delle proprie idee.

Un monito per i (tanti) cattivi maestri

Colmare una lacuna, impedire una rimozione permanente, consentire una riflessione a tutto tondo cinquant’anni dopo quella stagione di violenza ma soprattutto rappresentare un severo monito ai tanti, troppi, cattivi maestri che ancora oggi si aggirano nelle redazioni dei giornali e nei circuiti, dai social a quelli più istituzionali, dove si forma e si alimenta la pubblica opinione.

Le tossine del possibile ritorno ad una stagione di violenza politica diffusa si aggirano ancora nel paese nel momento in cui – anche oggi – si nega il diritto al ricordo ed alla pubblica commemorazione da parte di un ambiente dei propri morti.

La vicenda grottesca della rimozione della targa affissa in memoria di Stefano Recchioni a Roma, in prossimità dell’anniversario della strage di Acca Larentia, rappresenta in questo senso, oltre che un’inutile provocazione verso un intero ambiente, la conferma della perdurante volontà di alcuni di non spegnere mai del tutto il fuoco dell’intolleranza.

Attraverso la negazione di un diritto al ricordo che rappresenta una pietra fondante di qualsiasi comunità politica non solo si impedisce sul nascere un dibattito culturale intorno a questi temi ma si rende permanente una conflittualità che deborda dall’idea della politica come momento di confronto per assumere i caratteri di una guerra civile permanente.

La politica, ma non solo, soprattutto la cultura, dovrebbero lavorare per disinnescare questi rischi. Lavori di ricostruzione obiettiva di quei tempi possono rappresentare un eccellente antidoto a pericolosi ritorni all’intolleranza nella speranza che la scia di morte o anche di distruzione della vita di tanti giovani non trovi oggi alcuna giustificazione per riproporsi.

Adriano Minardi Ruspi

 

 

 

Nicola Rao
Il tempo delle chiavi
Piemme, pp.224

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