Chi ha trovato immediatamente comprensibili i motivi dell’appello al Tribunale di arbitrato sportivo (Tas) presentato dalla Agenzia mondiale antidoping (Wada) contro Jannik Sinner alzi la mano. Chi quei motivi li condivide si vergogni.
Il senso di questa pretestuosa impuntatura, infatti, non ha niente a che vedere con gli scopi istituzionali della Wada. Che, come si legge sul sito ufficiale, dovrebbero consistere nel «guidare un movimento mondiale collaborativo per uno sport libero dal doping».
Ma cosa ci sia di «collaborativo», nel caso specifico e in qualsiasi altra vicenda analoga, non si vede proprio. Così come non si vede in quale maniera questo accanimento insensato, che da un lato appare solo grottesco ma che invece ha implicazioni pericolosissime, dovrebbe contribuire a «uno sport libero dal doping».
Salvaguardare gli atleti
I dati di fatto sono noti e non staremo a riepilogarli. Quello che invece va specificato subito è che non si tratta solo di tutelare Jannik Sinner, ma di salvaguardare chiunque altro si sia trovato, o si troverà in futuro, in condizioni analoghe.
Anche ammettendo che il nostro fuoriclasse abbia ricevuto un trattamento migliore di quello riservato ad altri, in precedenza, la prospettiva va ribaltata: non è lui ad aver beneficiato di un privilegio, ma sono quelli sanzionati in modo draconiano e sommario a essere stati colpiti ben al di là delle loro effettive responsabilità.
Il vero discrimine – ed è pazzesco doverlo sottolineare – è tra doping volontario e contaminazione accidentale. Ed è su questo, perciò, che bisogna chiarirsi «al di là di ogni ragionevole dubbio».
Nessuno scampo, in pratica
Dove vivono, gli atleti, quando non gareggiano?
Ovvio: nella nostra stessa società. Facendo, più o meno, le stesse cose che possiamo fare anche noi. Magari con dei lussi supplementari – senza però dimenticare che non tutti gli agonisti sono superstar con redditi a sei o sette zeri – ma in luoghi e situazioni altrettanto eterogenee. Incontrando chissà quante persone diverse ed esponendosi, quindi, a ogni sorta di contatto.
Di contatto. Di possibile contaminazione.
Ciò che è assurdo, e che fa pensare a una volontà di dominio incontrastato, anziché di giustizia autentica, è enfatizzare la positività occasionale ai controlli antidoping. Anche se l’entità è infinitesimale (meno di un miliardesimo di grammo, nel caso di Sinner) e nulla di nulla comprova né un utilizzo deliberato né un vantaggio reale ai fini delle competizioni.
Un presupposto fuorviante
Il fuorviante presupposto, che spiana la strada a decisioni arbitrarie che sono agli antipodi dei proclamati obiettivi di correttezza e moralità, è che l’atleta sia tenuto sempre e comunque a evitare che gli accada qualcosa di anomalo.
Il principio della «responsabilità oggettiva» viene espanso a dismisura, a scapito della logica e della verità.
Non c’è stato nessun comportamento doloso? Non importa.
Non c’è stata nemmeno nessuna colpa particolare, nei termini ragionevoli di un’imprudenza che si poteva prevedere e quindi evitare? Non importa neanche questo.
Se ti è successo, ne rispondi comunque.
L’antidoping diventa un feticcio. Le agenzie che se ne occupano si trasformano in moloch. Delle «divinità» terribili e incontestabili che per autocelebrarsi esigono delle vittime. A maggior gloria di sé. A danno di chi ha la sfortuna di cascarci.
Intere carriere sportive stroncate per un dogma campato per aria e applicato brutalmente? Chissenefrega.
L’essenziale non è mica essere equi. Bensì…
Ubbidire. E zitti
Il comunicato con cui la Wada ha annunciato il suo appello contro l’assoluzione di Sinner è stringato. Fino all’omissione.
Undici righe e un finale lapidario: «Poiché la questione è ora pendente dinanzi al Tas, la Wada non rilascerà al momento ulteriori commenti».
Grottesco, come dicevamo all’inizio. Alla Wada non si chiedono «ulteriori commenti». Ma doverose e dettagliate argomentazioni.
La sua non è riservatezza. È iattanza. È il contrario di quella limpidezza che dovrebbe esserci in ogni ambito dello sport. Non soltanto da parte di chi lo pratica ma anche, o soprattutto, da parte di chi lo organizza.
Assumendosi (arrogandosi) il potere di stabilire ciò che è giusto e ciò che non lo è. Arrivando a cambiare i regolamenti di questa o quella disciplina, per adattarli a finalità a dir poco discutibili e comunque opinabili. A cominciare dall’interesse delle tv ad avere competizioni sempre più veloci e attraenti.
Succede nel tennis: vedi l’irrigidimento sul calcolo dei 25 secondi che sono il termine massimo per effettuare la battuta della pallina.
Dal Tennis al Calcio
Succede a getto continuo nel calcio: con la girandola di decisioni mutevoli e cervellotiche sul fuorigioco, sui falli da rigore, sui tempi del recupero a fine partita, e chi più ne ha più ne metta.
Una sequenza troppo nutrita e ricorrente, per ridurla alla banale invadenza di dirigenti che smaniano dalla voglia di mettersi in mostra e di affermare il proprio potere con ogni sorta di interferenze.
L’impressione, per usare un eufemismo, è che la strategia sia molto più ampia e complessa. Si spadroneggia nello sport, vincolando tutti gli atleti alle decisioni prese «nelle segrete stanze», e al tempo stesso si abituano le popolazioni mondiali all’esistenza di enti sovrannazionali che agiscono «ex cathedra».
Ci si ammanta di nobili principi – l’antidoping per la Wada, la Salute per l’Oms – e dietro quel paravento ipocrita si perseguono i propri veri scopi. Di cui la speculazione economica e multi miliardaria, forse, non è nemmeno l’aspetto peggiore.
Gerardo Valentini